Nervi a posto di Concetto Pettinato

Nervi a posto Nervi a posto Il 5 maggio 1527, le truppa del connestabile di Borbone, generale traditore messosi agli ordini di Carlo V per portare le armi contro il proprio paese, entravano in Roma e, ricalcando le antiche orme di Alarico, di Genserico, di Ricimero, di Vitige, di Totila, si abbandonavano al 'saccheggio. Il 5 giugno 1944, quattrocentodiciassette anni dopo, quasi esattamente, un altro generale traditore mescolato alla turba dei nemici della patria, entra in Roma invitando i Romani a « sostenere gli Alleati e a combattere contro i nostri comuni nemici », consiglio particolarmente appropriato per provocare fra le mura della Città Eterna un inutile bagno di sangue, seminarvi nuove rovine,, accendervi i roghi di nuovi incendi. Fedele alla parola data, il Maresciallo Kesselring si è ricordato, a dispetto dei traditori, di essere l'alleato del popolo italiano e ha rinunziato a fare di Roma una seconda Stalingrado, ritirando in tempo le proprie truppe a nord del Tevere, dove il nemico le ritroverà intatte e pronte a ripigliar la partita. Ma confidare in una analoga prova di cavalleria da parte dell'avversario era troppo pretendere, e gli Americani, raccogliendo, a difetto di Romani, l'invito di Badoglio, hanno voluto a tutti i costi portare la lotta e la strage nello stesso centro della città sgombrata dal nemico, passando sul suo corpo inerte coi loro mastodonti di ac ciaio come se si trattasse di una Frosinone o d'una Vel letri e puntando i cannoni Bui ponti del Tevere, da S. Paolo alla Cassia, nella rabbiosa e stolta speran za di raggiungere così, fra le case, i frontoni, le cupole, le statue e le croci di quei luoghi preziosi e fragili, unici al mondo, le ultime retroguardie di un esercito che non seppero battere nè fermare in campo aperto. Non avremo forse, Dio lo voglia, una ennesima distruzione di Roma, ma sin da ora non è dunque più lecito escludere la prospettiva di ingenti danni, forse ingentissimi, e neppur quella di un saccheggio da parte di truppe imbestialite da seicento ore di lotta selvaggia e ansiose di vendicare l'alto prezzo di sangue pagato per procurarsi il diritto di calpestare i selciati della più illustre fra le capitali del Tripartito. Forse, tra qualche giorno, dai piani nobili, dai superstiti unici e dalle sagrestie usciranno, ad onta di tutto, i complici, confessi o meno, dell'invasore, coloro che da anni avvelenavano l'atmosfera romana e, non contenti di auspicar la disfatta, vi lavoravano, e si schiereranno su quella Via dell'Impero dove sfilarono, nei giorni fausti, i soldati di Mussolini, si accalcheranno senza pudore sui marciapiedi all'ombra dei sacri lauri fra i quali le statue degli imperatori già si velano il viso, per propiziarsi coi loro sconci applausi la degnata sopportazione dei vincitori. Noi che il 10 novembre 1942 facemmo sfilare quasi di soppiatto, senza bandiere nè fanfare, i nostri soldati sull'agognata Promenade des Anglais, potremo così assaporare, di lontano, l'umiliazione suprema della passeggiata trionfale che ì generali nemici, compreso quel Jouin che rappresenta in Italia, con le sue truppe di colore, la triade Darlan - Giraud - De Gaulle, altra bella accolta di traditori!, si offriranno tra il Colosseo e i Fori Imperiali per celebrare agli occhi del mondo la prima vittoria ottenuta sull'avversario dopo cinque anni di guerra. Ma i complici romani della disfatta, dato e non interamente concesso che la virtù popolare della Roma di Cola e di Ciceruacchio non si ridesti in tempo dal fondo oscuro di Trastevere o del Quartiere Ostiense per imporre loro almeno almeno la remora di un dignitoso silenzio, non batteranno le mani a lungo. Ne abbiamo veduti sbollire, in otto mesi, di questi entusiasmi! Da Palermo a Napoli le cricche massonico-clericali che avevano accolti i « liberatori » con le braccia colme di fiori annaspano ormai impotenti e disorientate in mezzo a un paese deluso, colpito d'inanizione, preoccupato del fosco avvenire, oscuramente consapevole di non aver reso giustizia all'uomo e al regime che avevano voluta e fatta grande la patria. Una conversione analoga attende la capitale, non appena vi si constaterà che i trasporti di grano e di lingua affumicata promessi da Fiorello La Guardia non arrivano, mentre arrivano i Comandi stranieri, e che la Città Eterna, da Kesselring rispettata e generosamente assolta da ovivstncdtrrsnrcdgrcdrbncdzfezcnlslqiargcddClgs1tdcpsrsdgmti ogni funzione militare, diventa per volontà di Clark ima tappa degli eserciti invasori e ripiglia la sua esistenza precaria di immediata retrovia. Quando i Romani avranno sotto gli occhi lo spettacolo dei negri, dei neozelandesi, degli australiani, dei tommies e dei sammies in ribotta scompiscianti l'altare della Patria e vedranno tesori dei loro civici musei sequestrati quale bottino di guerra in attesa di arricchire le gallerie pubbliche o gli antiquari ebrei d'oltre Oceano, e i loro negozi svaligiati come lo furono quelli di Napoli, e i cortili degli edifici pubblici, da Palazzo Venezia al Quirinale, e le loro piazze più belle, dalla Colonna Antonina al monolito Mussolini, coperte di strame, di pezze da piedi e di latte di benzina o arate dai cingoli fangosi del carri della V e dell'VIII Armata, rinunzieranno ad applaudire e cesseranno di gridare osanna. Quando, poi, nelle sale r4 Aragno ripigleranno stanza gli uomini del 25 luglio e dell'8 settembre, quando in Piazza Viminale impererà Togliatti, quando a Montecitorio si affronteranno gli uomini del congresso di Bari e quelli del congresso di Napoli, quando alla Minerva, a un tiro di schioppo da via della Conciliazione, disfarà le valige Benedetto Croce, il più grosso e il meno morto dei senatori che il 23 maggio 1929 votarono contro i Patti lateranensi, gli arrabbiati dell'antifascismo ma più ancora di essi il popolo, il popolo umile e illuso, il popolo senza peccato si accorgeranno del bell'affare concluso. Valeva proprio la pena di coprirsi d'infamia rinnegando un'alleanza solennemente firmata è consacrata dal sangue per giungere a trasformare le'vie di Roma in luoghi di combattimento e portare il comunismo al potere! In cospetto di questa tragedia, noi che da,otto mesi lottiamo per ricostruire un'Italia degna di vivere non dobbiamo, comunque disperare nè perdere la bussola. Siamo tornati all'Italia del 1861, sta bene. Ma nulla è ancora irrevocabilmente deciso, se sapremo sfuggire alla torbida tentazione della rinunzia e del caos. Abbiamo un esercito in formazione. Che questo esercito stringa i tempi, che le divisioni già pronte non si attardino ad arrugginire nelle caserme o nei campi di addestramento, che le altre si formino senza indugio. I battaglioni italiani impiegati sul fronte delle Pontine si sono battuti da valorosi, come i loro predecessori di Cheren, dell'Amba Alagi, dell'Halfaya, di Bir el Gobi, di Taitruna. I marinai del « Barbarigo » fanno rivivere, coi pochi mezzi di cui dispongono, lo spirito dei marinai di Tobruk e di Punta Stilo. La stoffa è ancora buona. La fiducia può rinascere, se sapremo meritarla. Sveglia, Italiani! Basta con le diatribe inutili e con le zuffe intestine. Che governo e partito diano l'esempio, e che srli altri seguano, rinviando le ciarle, le critiche, i rancori a tempi men duri. O ci evegliamo, o di qui a pochi mesi nemmeno l'Italia del 1861 esisterà più, ridotta anch'essa un cumulo di macerie, un immenso campo di battaglia spianato dai grossi calibri, ricacciata per secoli dal Lilibeo alle Alpi nella notte del più lugubre e infame Medio Evo. Cessiamo di contare sulla pietà altrui in un'epoca in cui solo chi incute rispetto è risparmiato. E ricordiamoci, in quest'ora grave, noi che abbiamo ancora la relativa buona sorte di vivere in Piemonte, anzi a Torino, che vi fu un tempo in cui l'Italia non era nulla di più del Piemonte, anzi di Torino, e questo bastò a fare il resto, tutto il resto, sino all'Impero. Non abbiamo più capitale, ma abbiamo ancora la nostra vecchia metropoli, la città di Pietro Micca e di Alfieri, la città del « popol bravo », dei dieci assedii, dei « cento battaglioni ». Riportiamo le insegne dello Stato a Torino, e tanto meglio se sono insegne repubblicane. Rifacciamo di questa culla dell'unità e dell'italianità lo strumento della nostra salvazione, il comprensorio di un secondo Risorgimento, la scuola del »♦♦»♦♦♦♦♦♦♦♦»♦•♦♦♦♦« nostro nuovo costume politico e civile, l'arengo delle nostre galvanizzate energie. Abbiamo ormai accarezzato abbastanza, da questo Iato del Ticino le lusinghe del ribellismo e le ruggini dell'amor proprio: basta! Basta con la sfiducia, basta con le recriminazioni, basta coi « pigri errori » e gli « animi giacenti ». Le nostre responsabilità di fronte alla patria mutilata sono enormi, ma non sono inadeguate alle tradizioni del Piemonte che ancora una volta può,, se vuole, emulando i suoi|bravi sardi, mostrare agli Italiani come si lotta, come si muore, come si vince. Stretti tutti a spalla a spalla, operai e borghesi, civili e militari, donne e uomini, giovani e vecchi gridiamo insieme: « Viva l'Italia!». Concetto Pettinato