"Artefice di Numi,,

"Artefice di Numi,, "Artefice di Numi,, Paolina Borghese, non la frivola mediocre donnetta dotata tutt'al più di un bel profilo e di un seno sodissimo, ma l'immortale « Paolina » che contende a Madame Récamier la gloria d'essere il prototipo — per dirla con Mario Praz — della Dama sul sofà («...' immagine d'una poaa: la bella seduta su un sofà à l'antique, giovinezza eterna spirante in un clima che non sa d'umana passione...»), ha oggi centotrentasei anni: età che fa pensare, se riferita a un corpo femminile il cui fiore non appassì certo sotto i molti cùpidi sguardi, ma che tuttavia — ad esser generosi — ve-' drebbe pesare sulla sua fralezza almeno un secolo di troppo. Quel corpo, qnel profilo, quel seno, quella schiena (la schiena, si, soprattutto), quelle braccia davvero divine e che Omero non avrebbe sdegnato per farle offrire dal gaio Apollo a Mercurio —.: « Vorrestù avvinto in sì tenaci nodi - Dormire all'aurea Venere dappresso? » — resistono invece vittoriosamente al tempo. Resistono tanto che Antonio Baldini poteva un giorno sospirarvi intorno, sorpreso dalla notte nella bianca sala della Villa; e che.nel coro unanime di lodi suona stonato soltanto il giudizio (se pur non è. apocrifo) di John Keats: « Bellissimo cattivo gusto ». Mai titolo, a parte il pomo, fu meglio trovato: Venere vincitrice. Ella infatti vinse, vince e yincerà non come ricordo di donna, non come immagine di dea, non come espressione di un'età, non come suggello di una teorica, non come dogma d'una religione artistica il cui profeta, Johann Joachi'm.Winr ckelmann, parla, ormai cosi fioco, bensì puramente e semplicemente come statua perfetta, chiusa in un ritmo formale che, dalla punta del gomito appoggiato, all'estremità del piede disteso, scandisce ogni parte del marmo con la stessa misura, dalla prima all'undicesima sillaba, d'un verso delle Grazie: -— « Forse (o ch'io spero.'), artefice di Numi, - Nuovo meco darai spirto alle Grazie ». Ma non tutt: sono d'accordo; ed anche dopo gli ultimi studi sulla validità estetica del gusto neoclassico (si ripensi alle pagine mirabili del Praz), dopo l'accurato recente libro dì Elena Bassi sul Canova (Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, nono della serie «Grandi Artisti Italiani»), il problema critico dell'arte canovlana resta il medesimo, e la Bassi stessa lo- sintetizza con parole di rimpianto: «Il tributo di ammirazione da parte dei letterati, che allora notoriamente si disinteressa vano delle arti belle, ha pure un suo significato chiarito forse dal fatto che il Canova seppe pienamente intendere lo spirito del suo'tempo e ersare opere che solo in quegli anni potevano essere pienamente comprese. Per questo, come abbiamo visto, dovette soffocare le aspirazioni giovanili e quasi sempre rinnegare se stesso ». Insomma, è l'antico rammarico che il giovane venuto da Possagno nell'ambiente ancora improntato dai Tarsia, dai Torretti, dai Morlaiter, abbia avuto « il tocto » — lui precoce abilissimo scultore, lui sagace indagatore del la natura per istinto, e in principio quasi « verista » come denunziano alcuni particolari del Dedalo e Icaro, il Ritratto del Doge Paolo Renier, e quello, dipinto con un senso del caratteristico degno d'Ales Sandro Longhi, di Amedeo Svaier — « di lasciare il mon do settecentesco veneto, più affine al suo temperamento per quello neoclassico, in cui però si seppe ambientare con sincerità ». Quale sincerità? Il delizioso dono, 'lo squisito artificio tutto intellettualistico per il ripensa mento di un classicismo ales sandrino goduto nella cornice di un\ gusto ammaliatore più che nella necessità di un im pulso vitalmente poetico, che contrassegnaron l'arte preannunziata dal Poussin e codificata dal Winckelmann, sono se mai, la quintessenza del¬ l'insincerità estetica, della finzione morale. E' una cultura, quella preromantica, (la cultura, per intenderci, delle Antichità d'Ercolano), ove tutto si regge per equilibrio di stile, non certo per £uoco di nassione, tolto forse il fantastico Piranesi « nel quale le forme-barocche, pur geometrizzandosi, non perdono la loro'intensità dinamica è la loro suggestione d'infinità» (Praz). E' un'arte, quella neoclassica, che corona iIfcome uno splendido emblema ,disegnato con rigorosa perfe- „zione un intera società mossa |mda spiriti eroici: una società\ss1mmviinIsig, belle membra dalla gelida im-|,maestosamente drappeggiata che si specchia in se stessa: e non per nulla la psiche, « mobile tutto di lusso, e di nessuna utilità, mobile supremamente intellettuale, tutto immaginativa nell'ovale o nel riquadro deJla sua luce », è il mobile caratteristico dell'Impero. Noi possiamo anche immaginarla, Paolina, umanizzarsi d'un tratto, sciogliere le mobilità del marmo e volgere ulentamente il capo a mirarsi lcnella sua celebre psiche rimasta nel suo palazzo di Paubourg-Saint-Honoré, eseguita da Jacob, re dei mobilieri napoleonici. Eccola, la bellissima, riflessa adesso nell'enx dormante du miroir. Fissa ella il severo, Giove alto nella cornice, Bacco e Amore al centro delle candelabre, le appliqnes con le storie della dolce fanciulla, mito platonico, le gravi lettrici alate ai piedi degli stipiti. E' uno specchio, o non'' piuttosto l'altare della Beltà? Non sì celebrano su di esso i riti del culto della Forma Ideale? Prigioniero di questi simboli era il Canova fin da quando, benché « ancora legato alla tradizione settecentesca più tipica », tentava — come dice la Bassi — « di raggiungere l'idealizzazione desiderata dal Winckelmann»: cioè fin da quando, cioè, trentacinquenne, scolpiva l'Amore e Psiche, gruppo del l'i t)2 che a ' sua volta ispirava il dipinto del Gerard, di quattro anni dopo. Si ponga mente alle date: siamo agli albori dell'epopea na. poleonica; e la divinizzazione di Paolina verrà di qui a tre lustri. Prigioniero, dunque; ma come può esserlo un sovrano nella sua reggia, che sarebbe un menomarlo prestandogli velleità borghesi. Cosi, rimpiangere nel Canova « la tenue vena arcadica che costituiva il suo maggior fascino » significa trasformarlo in un piccolo decadente sopraffatto da cose più grandi di lui, da quella stupenda e araldica aulicità che fu il contrassegno del suo tempo, e della quale egli divise con il David la rappresentanza artistica. Ed è l'errore di quasi tutta la critica canoviana. « Scultore veneziano tradotto in. grpeo », era stato definito quando aveva creato il monumento sepolcrale a Clemen DzmgmsclplserrdIlscpldtclsdcKdbcess(ute XIV per la chiesa dei Santi IbApostoli; e già allora s'inizia- ipva l'equivoco, tutt'oggi perdu-irrante, di un Canova che rinne ga le sue origini, l'affettuoso grido del suo sangue legittimo, per abbandonarsi al vento della moda, per lasciarsi impastoiare « dall'enfasi petulante dei contemporanei». Non così lo vedeva il Foscolo, invitandolo al vago rito e a gl'inni, per innalzare l'ara « alle tre Dive»; e non si può negare che fosse proprio il poeta a veder giusto. Guardiamo i due gruppi dell'Amore e Psiche, le due versioni dell'Ebe, il genio funerario del monumento a Clemente XIII, e via via, in continuo progresso di nitore ellenico, di raffinatezza neoclassica, la Venere vincitrice, la Venere italica, le Grazie; ed in questa idealizzazione della forma, in questa pura ricerca del ritmo plastico staccato, quasi, da preoccupazioni umane, troveremo il vero e più grande Canova, l'ultimo sommo scultore italiano prima che col famoso « gobbo » introdotto in Accademia da un altro sommo artista, il Bartolini, si iniziasse la tirannia borghese del « vero » nell'arte. safddlptisccmar. ber. tst

Luoghi citati: Bergamo, Possagno