D'Annunzio a Venezia

D'Annunzio a Venezia D'Annunzio a Venezia La profezia della "Nave,, - Indiscrezioni tra la vita e il romanzo Donne, tenerezze, fantasia - L'immaginifico e la città anadiomene Quando, nell'estate del 1938, a Venezia, sull'estremo lembo di Campo Sant'Elena, fu rappresentata La Nave di D'Annunzio, e Giovanna Scotto, solenne attrice, scandi la famósa profezia della grandezza veneziana, noi spettatori provammo una curiosa impressione. Situazione teatrale e truccata, sta bene. E proprio all'apparire del poema, sui primi anni del secolo, s'era osservato, se ben ricordiamo, che questi personaggi barbarici parlano come se già sapessero a puntino la storia dell'illustre repubblica. Ironia troppo facile anche se il brano impeccabile della Diaconessa — Città, ti fonderò sopra i miei cedri — ha tutta l'aria di un espediente. Fatto è cLs noi si stava lì nel buio, di fronte al palcoscenico naturale, ricavato dal divino disegno dell'estuario — un'isoletta intera illuminata da fari, arricchita di costruzioni e praticabui smaglianti, animata da costumi stupendi, dalmatiche armi gioielli, irta nel porticciuolo di imbarcazioni antiche —, si stava sospesi a beverci la voce che pareva uscire dalla notte dei tempi; • dietro a noi, intorno a noi, nell'ombra, sentivamo ancor rorida della luce del tramonto, rosea e fulva, non sognata ma vivente, non profetata, ma attuale, marmi musaici acque nuvole, con quel palpito, quel soffio lungo molle ardente, la città unica: Venezia. La brava attrice andava esclamando: E farò d'oro il colmo de' timi tetti; — e farò le tue porte di zaffiro... E nella nostra fantasia, al ritmo delle parole, trionfava la Basilica di San Marco, si apriva alla brezza perlacea del crepuscolo il Palazzo del Doge, e risfavillava, intero, lo specchio argenteo di Tiziano e Veronese, di Giorgione e del Tintoretto. Un profondo brivido ci colse, come se davvero i verni del poeta inventassero sotto i nostri occhi il prodigio della città « anadiomene ». L'espediente teatrale era evidentemente riuscito. Nota di taccuino Se i biografi — osserva Gino Damerini in un interessante volume: D'Annunzio e Venezia (Mondadori Ed.) — distinguono nella vita e nella produzione letteraria del Poeta vari periodi, romano, napoletano, toscano, e via, è pur necessario riconoscere un lungo periodo veneziano, « intermesso e costantemente ricorrente tra quelli ». Come poi D'Annunzio abbia sentito lo spirito di Venezia, per trasferirlo plasticamente non solo nell'opera ma in un certo modo di vivere, sanno tutti quelli che hanno letto II Fuoco, e il Sogno di un tramonto d'autunno, e La Nave. Alcunché di acceso e di barocco, di morbido e ardito; un'esaltazione misteriosa tra i monumenti e i sogni che in Venezia fanno tutt'uno. Del Fuoco si può dire con Damerini che, prima di scriverlo, D'Annunzio lo abbia vissuto, agito. Del piccolo mondo dannunziano d'allora reca il Damerini piccanti documenti. V'è Angelo Conti, il Doctor Mysticus, che disputa con Gabriele sulla dottrina platonica e sulla teoria nietzschiana, v'è Mariano Portuny (quello della « cupola» teatrale) che fornisce le tuniche a Eleonora Duse; e naturalmente v'è la Duse. Eccoci nel pieno della passione ottocentesca. E poiché l'uomo è curioso, quella che fu un'ora confusa di luce e di inabissamento, diventa tema di piccole indiscrezioni. Quando e come si incontrarono, Eleonora e il Poeta? E, diciamo cosi, quale fu — e quando — il punto che li vinse? Andiamo davvero un po' troppo oltre. Ma insomma, rientrato in Italia dalla Grecia, D'Annunzio andò a Venezia tinche con l'intenzione di parlare alla Duse della Citta Morta... Il resto di quell'incontro — dice prudentemente Damerini — rimase un segreto tra loro. Senonchè sulla prima pagina del quinto di quel Taccuini ove D'Annunzio fermava qualcosa di sè, fuggevolmente, ecco spiccare — sola — l'annotazione: Amori et dolori sacra - 26 Settembre 1895 - Hotel Royal Danieli Venezia. E v'è già il tono fatale, l'accento di quelli che saranno gli amori di Stello Effrena e della Foscarina. L'ameno gondoliere A proposito dei quali, Stello e Foscarina, e della loro prima notte d'amore, poiché D'Annunzio era nel lavoro scrupolosissimo, volendo mettere in bocca al gondoliere che, sul far dell'alba, attende il padrone, qualche frase allusiva e arguta, si racconta che si rivolgesse a Fradeletto pregandolo di tradurre in vernacolo il tèsto italiano. E Fradeletto a chiedere informazioni precise: « Sa il gondoliere del convegno amoroso o semplicemente lo intuisce? In che relazione è con il suo signore? Può egli permettersi un certo tono confidenziale? E' un gondoliere de tragheto o de casada f ». E quindi a indicare modi più o meno amabili, più 0 meno salaci. Forti in gamba, padroncini Oppure: Xela straco, povareto? O quel grazioso: Bon segno co' la notolada fa fame; xe ai veci che la glie fa sono, proposto con molta finezza di distinzioni, e accolto nel romanzo con garbo. Ma ora basta con le delizie filologiche, e del cariar veneziano, come avrebbero detto 1 nostri nonni umanisti. Naturalmente nella vita veneziana di D'Annunzio, e nel libro di Damerini, passano altre donne. In quanto alla Duse, proprio a Venezia s'acuisce la crisi dei suoi rapporti col poeta. E' del 24 maggio 1899 una lettera di D'Annunzio ad Angelo Conti: « Per me, per l'amica, nessuna gioia. Dopo la rappresentazione ho passato alcune delle ore più tristi e tragiche della mia vita. Ella è presa da una specie di demone cattivo che non le dà tregua. La più profonda tenerezza, la più pura devozione non valgono!... ». Bene; appare qui quel D'Annunzio innamorato, o sofferente per amore, e inquieto, e apprensivo, che, smesse le vesti trapunte d'oro del vivere inimitabile, è poi cosi umano; come tutti. Lo ritroveremo, lo si può ritrovare in altre occasioni. Nell'aprile del 1913 giunge a Venezia un telegramma diretto a. « Donna Graziana di Soavia, traghetto della Maddalena ». Imbarazzo grande all'ufficio telegrafico. Ma v'è il luogo di provenienza, Arcachon, la firma, Gabriel, bisogna ad ogni modo recapita rio. Ed ecco .un fattorino andarsene da un'abitazione all'alt::'., facendo squillare tutti i campanelli, gridando dalla strada: un telegramma per Graziana di Soavia. Il grido va di loco in loco, tra lo stupore generale. Finché una signora s'affaccia, sorride, dice: Graziana di Soavia sono lo. Era un « segreto scherzoso * fra lei e il poeta, che l'aveva ribattezzata così per la gran gentilezza e bontà. NllDsdAfdndVidalita Graziana era lamica fedelissima di Giusini o Amaranta (quella di Solus ad solami, e D'Annunzio aveva scritto La . n a Nave proprio nel periodo della passione per costei; sicché la « fulva Amaranta » — nota Damerini — entrò per qualcosa nell'immagine di Basinola dalla «capellatura di fiamma». Amaranta, la storia è nota, fu poi travolta, dai contrasti dell'amore e della famiglia, nella follia, e allora da quel linguaggio orgoglioso e lussurioso D'Annunzio scende -ai parlar vivo, rapido, dolente, del c.uore. Non può avere dirette notizie di Amaranta, segregata, e telegrafa a Graziana perchè gliene faccia avere: « Sono in una orribile angoscia... Mi perdoni. Confido nella sua bontà. Le scrivo. Affezionatlssimo Gabriele », E' del tempo di guerra la sua amicizia per una giovane signora triestina abitante il Palazzo dei Giustinlan a San Vida], che il poeta chiamò — tra molti altri nomignoli — la Vidalita. E poiché la signora era a volte un po' capricciosa e tiranna la disse anche « Testardin ». Ora, il Damerini ben rileva nel sentimento del poeta per questa donna, e nelle lettere a lei, una freschezza, una confidenza, un abbandono mirabili; il tono è spesso tenero e allegro, ma v'è poi un'ansietà appena accennata, fuggevole, che scorre e svola, proprio come quando una donna, solo quella donna, amante o amica, può sedare, con un sorriso, un gesto, una parola, il tormento, misterioso, dell'essere uomo nella so litudine del mondo, e a quella donna si va con tutta l'anima «Verrà, non verrà? Che ha fatto Nidlola nell'ora sospesa tra l'orario vecchio e il nuovo? A mezzanotte io respinsi la sfera verso le undici e l'ora ricominciò. Non so perchè, ma avevo una voglia matta di far pazzie, così, fuori del tempo, In quell'ora perduta e fantastica». ToccEd appassionati e lievi; e questa cosetta incantevole: «La felicità è un soffio, un vòlgere di foglia, un raggio che si rompe nell'ac qua che scorre ». e s r , e i a n l a , e Il mito veneziano La Casetta rossa è ormai un luogo celebre, consacrato, della letteratura italiana. E' il luogo della cecità del poeta, e del Notturno. D'Annunzio I aveva avuta in affitto dall'amico principe Fnitz Hohenlohe; piccoli angoli, piccoli salotti, eiretl a specchi, arredamenti uigi XVI, pochi oggetti del rococò veneziano, vecchie stoffe di seta, un Guardi « perlaceo e iridescente ». In quel fragile giocattolo s'erano ritrovati De Regnier e Rilke, Hofmannsthal e la contessa di Noailles, una principessa di Ligne e una Metternick, la Duse e D'Annunzio, e 11, con il D'Annunzio guerresco e ferito passarono, nelle ore della poesia notturna, il rombo dei velivoli, la trepidazione e la aspettazione e il gusto della morte. L'affascinante e frivola festa veneziana era finita, spazzata via dal fatale 1914. Non più figurini di Bakst, non più balletti di Diaghilev/, non più leopardi al guinzaglio fino in Piazza San Marco, come usava la marchesa Casati... « Di là del Canale, i palazzi delle donne belle e famose tacciono abbandonati... ». Se nella Licenza alla Leda senza cigno ritornò in qualche modo l'artificiosa mondana venezlanità del tempo di prima, nel Notturno Venezia è pur presente, ma tutt'altra. V'è nel libro « la caligine della città sparente che la, guerra sembrava aver svuotata persino degli ultimi rimasugli vitali ». Dal poeta amante della Foscarina e dei sogni autunnali al poeta combattente, il senso, lo spirito di Venezia s'era dunque atteggiato variamente, sensuale o pugnace, crepuscolare o trionfante, ma con continuità, nell'opera sua. Con garbo Damerini cerca di porre in rilievo particolarmente quell'energia dannunziana che anche nel mito veneziano s'opponeva alle concezioni romantiche e post-romantiche, e alle rappresentazioni decadenti. Comunque dall'Allegoria dell'autunno alla Nave, dal Fuoco alla Pisatieito alla Licenza, ben si sente ohe Venezia fu per D'Annunzio uno stupendo forziere, un arcipelago di fantasticate delizie, un labirinto sull'acqua, e tra i giardini secreti, ben si sente la profonda voluttà di quei suoi sogni in una città pronta ai prodigi, apparsa sul mare, sospesa, nell'ore più peregrine, sul cielo. Venezia vi mette nel sangue un brivido di fiamma e nel cervello un'ebbrezza sottile; vi pare ch'essa possa trascinarvi in gorghi stillanti di pietre preziose, o a volo tra incoronamenti di stelle. D'Annunzio interpretò tutto questo, e con la sua gagllardia d'artista lo volse non ai languori, ma alla viole' za immaginifica; non se ne fece vittima, ma estetizzante dominatore. Poi venne la guerra, e Venezia fu per D'Annunzio luogo d'ansietà e d'ardimento tra le avventure e la morte. I f. b. umidddlcds