Patria e popolo di Concetto Pettinato

Patria e popolo Patria e popolo Però... Però non bisogna dimenticare una cosa: che nessun diritto di controllo e di critica affrancherà mai un cittadino italiano dal dovere di sentire e di agire talianamente. Facciamo il nostro esame di coscienza, e non tarderemo ad accorgerci che durante tutta la prihia meà del XX secolo la storia d'Italia è costantemene signoreggiata dal tormentoso problema del pariottismo. Un cinquantennio di drammi politici nostrani non ha probabilmente altra causa fuorché la lota quotidiana per imporre i vincoli del dovere nazionale a un popolo mal preparato o mal disposto ad accettarli di sua spontanea elezione. E perchè non dire addirittura che tale è il senso del'intero Risorgimento? Perchè, anzi, non soggiungere che fin dalla caduta dell'Impero Romano la nostra sto ria si impernia, di secolo in secolo, su quel medesimo, su quel solo problema? Il prò blema della patria sovrana, l problema dell'interesse na zionale in gara con Tinte resse locale, del vantaggio pubblico contro il tornacon o privato : gira e rigira, tutto fa capo qui. Da due o tre generazfoni roppa gente, nella penisola, va in solluchero davanti al e libertà civiche del popolo nglese. Tralasciamo pure di stabilire, per economia di carta e di inchiostro, sino a qual punto tali libertà siano effettive, e riteniamole per ipòtesi tutte egualmente provate e indiscusse: sta di fatto che se il popolo inglese ha potuto accordarsele e mantenerle è stato perchè a vigoria e la maturità dela sua coscienza nazionale non facevano di esse un pericolo per la comunità. Niente di male a esser laburisti, socialdemocratici o magari comunisti quando, al momento di prender posizione circa l'uno 0 l'altro dei grandi interessi della patria, i aburisti si scoprono sopra tutto inglesi, i socialdemocratici sopra tutto tedeschi e i comunisti sopra tutto russi. Qualunque ideale politico, qualunque partito o contrasto civico è lecito, anzi storicamente sano, finché trovi un imite insuperabile nell'istinto di conservazione del paese. Quanti congressi internazionali di partiti di sinistra non ebbero luogo durante i due primi decenni del nostro secolo? Eppure sarebbe difficile rintracciare nei loro verbali una decisione, un voto, un ordine del giorno dove la tesi dei delegati delle potenze più forti non abbia finito col trionfare delle tesi suggerite dagli nteressi 0 dalle preferenze delle potenze minori. Ma nessuno se ne è mai meravigliato, essendo di notorietà universale che i grandi popoli collocano la loro voontà e il loro orgoglio nazionale al di sopra di ogni cosa, e che anche allorché fanno dell'internazionalismo non tralasciano per questo di tirar l'acqua al rispettivo mulino. Fra noi Italiani, nvece, volontà e orgoglio, per non dire addirittura interesse nazionale, sono rimasti non di rado lettera morta non solo per i partiti estremi, spesso di vista cortissima, ma per i partiti che normalmente raccolgono i propri aderenti in seno alla borghesia e alle classi più lluminate di una nazione. Nel 1871, all'indomani del raggiungimento dell' unità ossia nell'ora in cui l'interesse della patria avrebbe maggiormente comandata la concordia, la nostra classe dirigente, divisa in destra e sinistra, non badava se non ad azzuffarsi. Mazzini tornava in esilio, Garibaldi offriva la sua spada alla Francia, il clero predicava alle masse l'assenteismo, i democratici rispondevano lanciandosi a corpo perduto nella rappresaglia anticlericale, a rischio di mandare in pezzi l fragile edificio appena ap: pena compiuto; e, invece di far blocco insieme intorno a un programma pratico di opere pubbliche e di riforme amministrative, le due ali del Parlamento perdevano il proprio tempo l'una rinfacciando alla destra di essersene stata in disparte ai giorni in cui Mazzini difendeva la repubblica romana e Garibaldi preparava mcon Crispi la spedizione deiMille, l'altra facendo arre stare Fortis e Aurelio Saffi per ritardare di due anni la vittoria della sinistra alle elezioni del 1874. Quando, nel 1882, il trasformismo del Depretis tentò avvicinare gli elementi moderati dei due campi per porre termine alla contesa, le figure più rappresentative della sinistra, da Cairoli a Nicotera e da Zanardelli a Crispi, batterono in ritira-ta pur di obbligare Bon-ghi, Minghetti e Spaventa arestarsene nell'opposizione. Quando, nel 1887, Crispi si accinse a consolidare e sfruttare la Triplice, l'estrema, ancora una volta, fu di parer contrario, perchè a suo giudizio l'Italia doveva procedere d'accordo con la democratica e massonica Francia, non con la Germania bismarcldana e conservatrice. Quando poi, nell'89, fu firmato con Menelick il trattato di Uccialli che avrebbe dovuto darci il protettorato sull'intera Etiopia, si ebbe per giunta l'insurrezione dei ceti industriali, commerciali e agricoli, timorosi di complicazioni coloniali atte a turbare l'arricchimento bene avviato del paese e il riordinamento della finanza pubblica e fautori della così detta politica del « piede di casa ». E quando Crispi dichiarò la guerra, i politici del piede di casa, nelle cui file fraternizzavano, per l'occasione, sinistre e moderati, socialisti e anarchici, liberali e clericali, si augurarono una disfatta per liberarsi di lui; e, dopo arvere incoraggiato la folla a schiamazzare sulle piazze e a strappare i binari della ferrovia per impedire la partenza delle truppe, salutarono in Adua, la vittoria di Cavallotti, un grande successo di quella politica. Adua risospingeva indietro l'Italia di parecchie lunghezze sul cammino della propria fortuna di grande potenza, chiudendole, fra l'altro, ogni prospettiva tunisina: ma a simili inezie nè i socialisti di Turati, nè i repubblicani di De Andreis, nè i radicali di Romussi ponevano mente. E quale fu finalmente, dopo la prima guerra mondiale, la genesi del movimento fascista, se non il bisogno di reagire al disfattismo uscito da Versaglia e anelante a strappare all'Italia gli stessi pochi e magri frutti della vittoria per risolvere la guerra vinta in una vittoria di classe a spese degli interessi superiori della nazione? Il prevalere dell'interesse di classe, di gruppo 0 di partito sull'interesse nazionale è, insomma, fenomeno tipicamente italiano. Che una parte del nostro popolo giunga a credere di aver qualcosa da guadagnare alla disfatta di questi o di quei dirigenti, e non esiterà a sacrificare allo scopo ogni altra considerazione. Non ci è toccato di rado ricevere lettere di energumeni e di forsennati che si dichiarano pronti ad accogliere a braccia aperte qualunque giogo straniero pur di « vendicarsi » del fascismo. Non altrimenti i principotti dell'Italia medievale insorgevano contro un Berengario o un Arduino, sovrani nazionali, e chiamavano al di qua delle Alpi sovrani stranieri, nell'unica preoccupazione che il sovrano straniero prendesse meno a cuore dei primi il domare la loro anarchia. Secoli e secoli di tragici esperimenti in corpore vili non sono bastati a stroncare del tutto questa tendenza aberrante, questa ottusità del nostro senso civico e storico. Ora, in tali condizioni, è chiaro che difendendo i diritti della critica, della discussione, del controllo^ della collaborazione e così via noi non perdiamo d'occhio un istante che tali diritti trovano, debbono trovare il loro limite naturale nel supremo interesse della patria. « La libertà vera, diceva Mazzini, non consiste nel diritto di scegliere il male ma nel diritto di scegliere fra le vie che conducono al bene ». E il bene, in politica, che altro può essere se non quello della comunità, della patria? Ma poiché non è da presumere, purtroppo, che in un popolo di cultura limitata e di tradizioni politiche eterogenee quale l'italiano sia dato a tutti discernere, in ogni momento, dove «tia il bene della patria, ne consegue che l'obbiettivo principale della collaborazione tra maggioranza diretta e minoranza dirigente va posto nella ricerca costante e nella definizione di questo bene, al quale tutto il resto vuol essere, poco o tanto, subordinato. Il governo deve al governato il rispetto che si compete al membro di una co munita dalla quale ha rice vuto i propri poteri, il che è quanto dire che deve trattarlo da cittadino e non da lsuddito. Ma il cittadino, dal canto suo, non deve dimen ticare che normalmente un governo vede più lontano di un governato, e che per cia: scun p'roblema in sospeso 1 termini da accordare sono svariati e molteplici, spesso antitetici, mentre non di rado la supposta saggezza del singolo è mero semplicismo. Siamo e saremo sempre fautori della libera critica, ma non ignoriamo che cn- ! ticare è di gran lunga più ] facile dell'operare e che a !chi sta più vicino al detta- glio delle cose molto spesso ne sfugge l'insieme. Le quali sono verità banali e non filosofemi: senonchè in tcimpi di crisi e di disorientamento anche le verità più banali finiscono talvolta per oscurarsi. Oltre tutto, un consiglio di massima vorremmo dare agli Italiani: diffidare anche ■ un po' di se stessi, e nno solo degli altri. Eccedere in sospetti nei confronti dei governanti e largheggiar d'indulgenza nei propri non è savio nè onesto. Il fascismo, al postutto, è un fenomeno italiano e i suoi difetti furono e sono difetti italiani. Col che intendiamo dire che italiani furono, sino a un certo segno, anche i difetti dei regimi che lo precedettero e che non meno italiani sarebbero domani i difetti di qualunque altro regime che riescisse a prender piede fra noi, comunismo non escluso. Un' Italia comunista, lo scommettiamo, si troverebbe alle prese con gli identici guai di cui ha sofferto e soffre il fascismo, se non con guai molto peggiori : e per conto nostro ci par già di sentire, con la fantasia, gli italiani recitarsi sottovoce le barzellette contro i Commissari del popolo, gettar moccoli contro la burocrazia sovietica, denigrare il kolkhose e lo stahhanovism<o e concludere con la solita frase: « Si stava meglio quando si stava peggio ». Nella modesta coscienza di queste non liete verità risiede, forse, il criterio indispensabile per ogni fesonda collaborazione tra Governo e popolo. • Concetto Pettinato