Giovinezza del Mantegna

Giovinezza del Mantegna Pianto su gli Eremitani Giovinezza del Mantegna Il tentativo sarebbe d'uscire dalla cronaca; ma nella cronaca — la più cupa e desolata — è giocoforza ricadere. Il danno artistico più grave inferto ail'Italia dalla guerra a tutt'oggi (e non illudiamoci: altri ugualmente tremendi ne verranno) è la distruzione della cappella Ovetari. Si usciva dagli Scrovegni, si andava agli Eremitani: col Santo, con la Scuola del Santo, col Gattamelata, le maggiori glorie padovane: glorie italiane, glorie del mondo: orgoglio e dignità dell'uomo specchiato in se stesso, cioè nel suo genio. Là era il primo albore dell'umanesimo, la ritrovata coscienza dell'animo, del sentimento, e — auspice la possente fede ed il sublime candore del dramma cristiano — la piena, insuperata conquista dell'espressione. Duecento passi: e la rinata eloquenza antica si spandeva, con le storie di San Giacomo e di San Cristoforo, interpretate da nuovo senso classico che permeava persino l'esteriore costume, nel breve spàzio absidato sul qilale vigilava l'Assunta, esempio compositivo ancora sessant'anni dopo a Tiziano. Un attimo: uno solo dei miliardi d'attimi di questa guerra orrenda; e la chiesa degli Eremitani fu un mucchio di macerie, e spari la giovinezza di Andrea Mantegna. « Poi, dunque, che ebbe fatta Andrea allora che non aveva più che diciassette anni, la tavola dell'aitar maggiore di Santa Sofia di Padoa, la quale pare fatta da un vecchio ben pratico e non da un giovanetto ; fu allogata allo quarcione la cappella di San Cristofano, che è nella chiesa de' Frati Eremitani di Sant'A- §ostino in Padoa, la quale egli lede a fare'al detto Niccolò Pizzolo ed Andrea.»: cosi l'antica fonte del Vasari, che si dilunga poi sul contrasto fra il Mantegna e lo Squarclone, vero imprenditore di pitture, e, benché animatore innegabile, sfruttatore di giovani artisti; e dà, con la consueta saggezza che il pregiudizio naturalistico ed imitativo non sempre riesce a compromettere, una chiara idea della prima maniera mantegnesca, « un pochetto tagliente, e che tira talvolta più alla pietra che alla carne viva ». I documenti poi scoperti ci apprendono che il 16 maggio 1418 veniva firmata una convenzione fra Imperatrice, vedova di Antonio Ovetari di Cittadella (il quale nel 1443 aveva lasciato settecento ducati d'oro per « ornari et dipingi capelfa... cum historlis sanctorum Jacobi et Cristophorl in Ecclesia Haeremitanorum Paduae ») ed i pittori Niccolò Pizzolo e Andrea Mantegna, per la pittura di metà della cappella, cioè la parte non affidata ,ad Antonio Vivarini e a Giovanni d'Alemagna. Il Mantegna, nato ad Isola di Carturo dal falegname Biagio nel 1431, aveva dunque diciassette anni; e appunto allora s'era sciolto dall'impegno contratto con lo Squarcione, per abitare da solo in contrada Santa Lucia ed aprire bottega propria. Le prime pennellate mantegnesche sui muri ora polverizzati risalgono perciò — vi si pensa con commozione — all'estate del 1448, se il 15 luglio egli riscuoteva venticinque ducati in acconto del lavoro intrapreso. Scrìsse il Fiocco: « E* dunque nella cappella Ovetari ' che possiamo vedere ai primi passi l'artista, sparite come sono le altre opere »... Parole adesso senza significato, se non per L'Assunta dipinta con otto figure di Apostoli nel centro dell'abside, e pei due guasti affreschi del Martirio di San Cristoforo, che, essendo già da tempo staccati dal muro, poterono essere posti in salvo prima del bombardamento. • Ma non queste ultime pitture colpivano il visitatore degli Eremitani. Poteva incuriosire il profano l'enorme corpo del martire gigante trascinato Ser le vie delia città; poteva iteressare l'intenditore il taglio ardito della scena divisa dalla colonna ionica, la prospettiva unitaria, l'originalità del rustico pergolato contro l'architettura aulica, la nuova vivezza di certe figurette, già sciolte dall'atteggiamento'statuario, persone vere colte nel popolo e non più sculture colorate derivate da conoscenza archeologica. Dal canto suo l'Assunta, pur nella sua genialissima soluzione compositiva, richiedeva dall'osservatore più adesione di cultura che di sentimento: immagine astratta, pietrificata, frutto di una stupenda intelligenza giovanile ancora innamorata dei puri concetti, non ancora toccata e provata dalla vita. L'occhio invece correva alle Storie di San Giacomo, dove l'entusiasmo tutto intellettuale per la romanità si fondeva con la meno esteriore esperienza figurativa fiorentina ormai pienamente assimilata — dalla venuta di Niccolò Lamberti in poi, ma soprattutto attraverso gli esempi di Paolo Uccello e di Donatello — dall'ambiente padovano. Qui trionfava infatti il portento della precocità mantegnesca: nella vocazione e nel discorso del santo ai demonii, nel battesimo di Ermogene, nel giudizio di Erode Agrippa, nell'umile omaggio dello storpio sulla via del supplizio, nella luminosa scena del martirio. Specie guest' episodio, dipinto per ultimo fra il 1456 ed il '57 dopo 11 ritorno da Venezia, mostrava i passi giganteschi compiuti in meno di un decennio dall'artista. Non gli si poteva più certo applicare il biasimo dello Squarcione — almeno secondo quanto riferisce il Vasari — d'aver troppo « imitato le cose di marmo antiche, dalle quali non si può imparare la pittura perfettameme ». Sparite le superbe statue dipinte che intellettualisticamente s'atteggiavano in studiate pose d'uomini davanti al trono del re giudeo o sotto il fornice romano, il dramma esplodeva con feroce potenza nella cornice' realistica della libera natura; si scioglieva il rigore plastico persino eccessivo delle precedenti scene in una pittoricità inusitatamente goduta attraverso il sereno ascendere del colle, nella dolce atmosfera avvolgente i campi, le strade, le rovine, il turrito castello. Già s'annunziava il pittore dei profondi paesaggi della Stanza degli Sposi, lo psicologo delle predelle dell'ancona di San Zeno. Come si disse, l'Umanesimo si faceva umanità: umanità non più vincolata dal legami culturali, ma in ugual modo eloquente, più tardi, sia nell'allegoria del Parnaso che nello strazio del San Sebastiano della Cà d'Oro. Di quei preludi mirabili, di quell'avvlarsi glorioso d'un genio sulla via delle massime realizzazioni pittoriche, non restano oggi che muri diroccati, schegge d'intonaco, scaglie di colore. Dove andremo a cercare il Mantegna giovane antecedente, alla pala di San Zeno ed al primo soggiorno mantovano? Nel San Gerolamo penitente o nel San Marco? Nella Madonna fra San Ludovico e San Gerolamo o nell'Adorazione dei pastori? Comunque — tolta la Sant'Eufemia di Napoli, del 1454, e il polittico di San Luca di Brera che 11 Fiocco assegna al tempo degli affreschi Ovetari — fuori d'Italia: a Nuova York e a Francoforte, a Berlino e a Boston. « Io ho fatto ' uno omo Andrea Mantegna », aveva proclamato orgogliosamente* Francesco Squarclone dimenticando quanto invece Andrea doveva al Pizzolo, e soprattutto a Donatello. E a venticinque anni, come scrisse, IL Berenson, il Mantegna, dipingendo agli Eremitani, aveva acquistato, quanto alla forma e al movimento, « quasi tutto quello ch'era destinato a possederne ». Quelle pitture non esistono più. L'uomo aveva creato. L'uomo ha distrutto. E prende una specie di orrore, che quasi non è più pena nè rammarico, ma soltanto ri- j brezzo, per questo suo atroce, miserabile destino. mar. ber.