Piantare alberi nel Sud di Indro Montanelli

Piantare alberi nel Sud CONTROCORRENTE DI MONTANELLI Piantare alberi nel Sud L'Editrice Vallecchi ha raccolto e pubblicato in due volumi tutte le opere di Giustino Fortunato, e bisogna dirgliene grazie anche perché temiamo che il pubblico non lo farà. Anni orsono, passando da Rionero in Vulture, suo paese natale, chiesi a dei passanti dov'era la casa di Fortunato: nessuno lo sapeva. E se di lui si è perso il ricordo laggiù, figuriamoci quassù, dove popolare non fu mai. Veniva da un ceppo di terrieri che solo con la tenar eia e l'avarizia si erano guadagnati i galloni di proprietari sbocconcellando piano piano i feudi dei baroni al cui servizio erano stati prima come braccianti, poi come Attuari, e infine come fattori. E da ragazzo aveva assistito all'atroce guerra brigantesca, di cui Rionero fu uno degli epicentri e in cui la sua famiglia si era trovata direttamente e rovinosamente coinvolta: oltre a tutto il bestiame, aveva dovuto consegnare alle bande di Crocco una forte somma per il riscatto del figlio maggiore, Gennaro. Furono queste drammatiche esperienze, credo, a dargli del suo Mezzogiorno una visione realistica e disincantata, che non concesse mai spazio a faustiani sogni di palingenesi. Egli ragionò sempre della sua terra da uomo di terra, e per questo non sempre andava d'accordo col suo amico Benedetto Croce che ne ragionava da uomo di biblioteca. «Lui crede — diceva — che gli uomini siano figli delle loro idee, mentre anche le idee sono figlie del loro clima. Dove non piove, anche Hegel morrebbe di sete ». Fu allievo a Napoli di De Sanctis che gl'inculcò « la diffidenza verso i dogmi di ogni genere, verso i sistemi e le formule prestabilite». e dopo la laurea pensava di arruolarsi nella burocrazia, quando gli giunse, « improvvisa e non attesa », la proposta della candidatura a deputato del suo collegio. I « notabili » che presiedevano a queste scelte avevano riconosciuto in lui uno dei loro, e per un certo verso — il verso buono — non si sbagliavano. Con i Borbone I Fortunato non erano una famiglia di tradizione risorgimentale. Anzi, il più eminente dei loro antenati era stato Presidente del Consiglio dei Ministri sotto Re Ferdinando, e per non rinnegarlo era finito in esilio. Alla dinastia li legava la gratitudine per le leggi « eversive » che, distruggendo la vecchia impalcatura feudale, avevano consentito la formazione di quella borghesia agraria a cui essi stessi appartenevano. Ma, via via che l'ordine borbonico s'indeboliva e le campagne entravano in subbuglio, si erano convertiti all'idea unitaria, in cui vedevano una più solida garanzia di conservazione, e anzi ne erano diventati paladini, ma più per calcolo che per mistica. Giustino rimase sempre refrattario alla mitologia del Risorgimento: lo considerava « il maggior avvenimento politico del secolo decimonono », ma frutto più della « mirabile improvvisazione » di una esigua minoranza che di una volontà nazionale di riscatto: cose che, a dirle oggi, non fanno più nessun effetto, ma allora suonavano sacriieghe. In parole povere, . l'unità, secondo lui, bisogna! va ancora farla. Per farla, bisognava soprattutto pareggiare i conti fra Nord e Sud. E fu questa l'impresa a cui si accinse, quando gli elet- tori gli affidarono il mandato. La sua prima battaglia fu contro i luoghi comuni. Del Mezzogiorno, quando Garibaldi glielo regalò (o glielo impose), i settentrionali non sapevano nulla. Lo credevano un paradiso terrestre ridotto alla miseria dal malgoverno borbonico, e a scuotere questa illusione non bastò nemmeno lo scoppio del brigantaggio. Invano Massari, mandato a indagare sulle sue cause, aveva ammonito che il fenomeno non si poteva ridurlo a semplice criminalità. La sua relazione rimase lettera morta, come inascoltate erano rimaste le parole di Mazzini: « L'Italia sarà quel che sarà il Mezzogiorno ». I notabili del Sud non contribuirono molto a rischiarare le idee a quelli del Nord. Anzi, casomai, fecero di tutto per confondergliele. Ad essi conveniva avallare l'idea che quello del Mezzogiorno fosse soltanto un problema di ordine pubblico: i carabinieri gli facevano più comodo delle riforme. Ma fu qui che, sul conto di Fortunato, si sbagliarono. Per tradizione di famiglia, per formazione culturale, per interessi materiali, per abitudini, costume e mentalità, egli era effettivamente dei loro. Ma non per coscienza. Appena arrivato in Parlamento — e non aveva che trentadue anni —, egli vi fece risuonare la voce di un Mezzogiorno assai diverso da quello che vi rappresentavano i suoi conterranei: il Mezzogiorno dei « cafoni » e della disperazione. Questa voce non avrebbe fatto effetto se si fosse alzata da un banco di sinistra. Ma venendo da destra, o almeno dal centro-destra, a molti dovette sembrare un tradimento. L'accusa, se mai gli fu mossa, non lo scalfì. Da vero notabile di estrazione « moderata », Fortunato non sentiva la disciplina di partito. L'unico rapporto che lo condizionava era quello con gli elettori, ed era un rapporto di « servizio », quale purtroppo non è mai usato in nessun regime italiano, né di destra né di sinistra. Agli elettori, che per trent'anni gli affidarono la loro rappresentanza, egli diceva tutto: tutto ciò che aveva fatto, tutto ciò che si proponeva di fare, e i motivi per i quali lo faceva. Quando a questo rapporto personale e diretto l'estensione del suffragio ne sostituì un altro basato sull'ideologia, egli rinunziò al mandato, e solo la nomina a Senatore gli permise di continuare la sua battaglia. Questa battaglia non ebbe per teatro solo il Parlamento, anzi si svolse soprattutto nella pubblicistica. A porre in termini realistici il problema del Mezzogiorno era stato Pasquale Villari, che in una delle sue Lettere meridionali aveva scritto all'indirizzo dei settentrionali: « Dopo l'unità e la libertà d'Italia, non avete più scampo: o voi riuscite a render noi felici, o noi riusciremo a render barbari voi»: un dilemma, sia detto fra parentesi, che non ha perso nulla della sua attualità, e nessuno può capirlo più dei torinesi. Ma a farsene eco sul piano nazionale furono prima la Rassegna settimanale di Sonnino e Franchetti, e poi La Voce di Prezzolini, che scoprirono e rivelarono il Fortunato scrittore. Il meridionalismo nacque con lui, ma con caratteri ben diversi da quelli che poi assunse. Ed ecco perché la riedizione dei suoi scritti, ormai quasi introvabili, ci appare quanto mai opportuna e tempestiva. Essa è preceduta da una lunga prefazione di Manlio Rossi Doria, che traccia di Fortunato un ritratto mirabile. Ma con un nèo, o almeno così mi sembra. Egli nega il fondamentale pessimismo di Fortunato, e lo nega con le parole stesse di Fortunato, che rifiutò sempre questa taccia. Se Fortunato si batté con tanto impegno e tenacia per il suo Mezzogiorno, dice Rossi Doria, è perché ci credeva e credeva nel suo riscatto. Ecco, questo è il punto: ci credeva veramente? Non vorrei essere frainteso. Fortunato, si capisce, non era uomo da darsi alla vita politica solo per fax carriera e togliersi il gusto di farsi chiamare « onorevole »: tant'è vero che declinò la carica di Ministro che lo avrebbe promosso a « Eccellenza ». Certamente era convinto che per il Mezzogiorno qualcosa si poteva e quindi si doveva fare. Ma di che portata fosse questo qualcosa, lo dicevano le modeste misure che invocava: un fisco più equo che, alleggerendo . i gravami dell'agricoltura meridionale, le consentisse l'accumulo di risparmio necessario alla sua trasformazione capitalistica, e un ritorno al libero scambio che la sottraesse al vassallaggio dell'industria settentrionale. Riforme di « struttura », come oggi si chiamano, e provvidenze speciali tipo Cassa del Mezzogiorno, non ne sollecitò mai, anzi ne rifiutò sempre con orrore l'idea. Per ottimismo di liberale fiducioso nella ricetta dei «naturali equilibri », dice Rossi Doria. Per pessimismo di conservatore, dico io, e lo dico in base a un piccolo episodio personale. Lontano viaggio Ero studente, ma già scribacchiavo su giornaletti d'avanguardia semiclandestini, e il mio cavallo di battaglia — un cavallo a dondolo, data l'età — era proprio il problema meridionale, su cui preparavo anche la tesi di laurea. Un giorno ricevetti questo biglietto: « Caro Signore, seguo i Suoi articoli sul Mezzogiorno e, sebbene non ne condivida le conclusioni, mi permetta di esprimerle il mio apprezzamento per l'esattezza dei dati. Se Le capita di passare per Napoli, venga a trovarmi: sarei felice di scambiare con Lei qualche idea su una questione che, come forse Le è noto, visto che mi fa spesso l'onore di citarmi, ha occupato parecchi anni della mia vita ormai al tramonto. Mi creda con molta stima e simpatia il Suo Giustino Fortunato ». Inutile dire che l'indomani viaggiavo in un vagone di terza classe alla volta di Napoli, non so se per conoscere il grand'uomo di cui sapevo quasi a memoria gli scritti, o per farmi conoscere da lui. Fu il mio primo importante « incontro »; e siccome l'ho già raccontato in altra sede, non voglio ripetermi. Di Fortunato mi colpirono molte cose: la dolcezza, la malinconia, la ritrosia. Ma a imprimersi indelebilmente nella mia memoria fu una sua frase, che di lui mi fece capire più di tutto quello che ne avevo letto. Si discorreva dello « sfasciume geologico » (così 10 chiamava) del Sud, e io insistevo a dire ch'era solo 11 frutto di una politica agraria sbagliata. « No — m'interruppe a un certo punto scotendo la testa —, non è questo, mi creda. Nel Sud non ci sono boschi perché non c'è Dio. Chi non crede in Dio non crede nel domani. E chi non crede nel domani non pianta alberi ». Sul Mezzogiorno, non ho mai udito pronunciare un giudizio più vero, ma neanche più disperato. Indro Montanelli

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