Alla scoperta del Medio Evo nel vecchio centro di Torino di Marziano Bernardi

Alla scoperta del Medio Evo nel vecchio centro di Torino Suggestivo itinerario per il pedone domenicale Alla scoperta del Medio Evo nel vecchio centro di Torino Nella vicenda urbanistica, edilizia, monumentale di Torino è avvenuto che in duemila anni di storia ogni successiva civiltà cancellasse i segni, o scarsi ne lasciasse, fatta eccezione per il Barocco, della civiltà precedente; finché l'ultima, la nostra, tecnologica, materialistica, consumistica, col suo cemento e vetro e metallo, distruggerà o lascerà perire, infischiandosene, quel poco che di esse resta, e buona notte. Così due settimane fa, offrendo al torinese «pedone» domenicale una modesta traccia per una visita agli avanzi di Augusta Taurinorum, s'è dovuto andarli a cercare, tolto uno, quasi con il lanternino. Non molta più luce si potrà fare oggi sui ruderi medioevali, cioè della piccola città che ancora alla fine del Cinquecento la tamosa « pianta » delineata dal Carracha mostrava rinserrata, coi suoi circa 20.000 abitanti, nel primitivo reticolo romano che costringeva, chiuso nelle sue mura, a costruire case alte per la popolazione accresciuta. Una cittadina che Io storico Cognasso ha suggerito d'immaginare con viuzze strette e oscure, case in mattoni a porticati bassi, finestre bifore a ogiva o « guelfe » decorate di terrecotte, muri affrescati a vivi colori, ballatoi sporgenti sulle strade non selciate e ingombre dei banchi di rivenduglioli, chiese piccole con ghimberghe in facciata, campanili cuspidati. Tentiamo di ritrovarla. Rechiamoci allora a Palazzo Madama. Sporgendosi da una ringhiera a pianterreno il visitatore scorgerà il mezzo arco superstite di quell'antica « Porta Fibellona » (così detta, pare, perché i figli di un tale Sèllonus ne avevano il controllo ed eramo conosciuti come filii Bellori) aperta verso la campagna del Po dopo (ma forse anche prima) che la « casa forte » costruita da Guglielmo di Monferrato tra le due torri della Porta Romana aveva bloccato quel passaggio. Siamo al tempo del rigoglioso Comune torinese tenacemente insidiato dai conti di Savoia; ma — giacché ci troviamo sul posto — usciamo dal Palazzo a contemplare, dall'esterno sul lato orientale di piazza Castello, il più vistoso monumento della Torino medioevale: le due superbe torri che, fatte alzare fino a 38 metri da Ludovico d'Acaia nei primi due decenni del Quattrocento ma probabilmente terminate sotto Amedeo Vili, serrano ai fianchi l'ampliamento della rocca guglielmina attuato dai d'Acaia, dai quali prende nome l'immenso salone interno, magnifica sede d'una parte delle raccolte del Museo Civico. Questa grandiosa mole strutturata nel cuore della città « storica » ci conferma che Torino, anche prima di divenire con Emanuele Filiberto la capitale degli Stati sabaudi, non era il trascurabile « villaggio » che autorevoli studiosi sostengono fosse quando nei maggiori centri italiani fioriva la civiltà umanistica e rinascimentale. Grandi artisti come Giacomo Jaquerio vi trovavano lavoro e il desiderio del bello e dell'adorno doveva esser vivo nella sua gente, La prova? Da piazza Castello si risalga via Pietro Micca ed all'altezza di via Mercanti ci si fermi ad osservare, al numero 9 di questa strada, le finestre leggiadramente incorniciate di cotto, e si visiti anche il ben conservato cortile. Di qui portandosi in via Garibaldi e in pochi passi raggiungendo poi l'incrocio delle vie Quattro Marzo e Porta Palatina, si guardi la casa dov'era uno dei più antichi alberghi torinesi, la « Corona Grossa », cui un restauro troppo spinto ha dato un aspetto tardo-quattrocentesco. E tutta la zona intorno, dalle vie Berchet e Torquato Tasso a via della Basilica, presenta qua e là qualche sembianza medioevale che ci rammenta l'esistenza, in un punto imprecisato, della Curtis ducis longobarda, probabilmente situata sull'area dell'antica curia dei magistrati romani. E le chiese cui prima s'accennava? All'unica rimastaci con forme convincenti di quell'età remota, per le vie Quattro Marzo e Milano, si perviene con breve cammino: cioè alla chiesa di San Domenico, costruita nel Trecento, che malgrado le alterazioni barocche ha ritrovato, coi restauri del principio del nostro secolo, le sue forme gotiche accentuate dall'alta ghimberga della facciata, con le quali concordano nell'interno i frammenti di affreschi trecenteschi che possono considerarsi un preannunzio della pittura di Giacomo Jaquerio. dm Il suo campanile è più tardo, precede di un ventennio la possente torre campanaria del duomo, in piazza San Giovanni, che il vescovo di Torino Giovanni Compeys fece erigere con ritardato gusto romanico intorno al 1470; interrotta la costruzione alla cella campanaria, fuproseguita nel 1722 secondo un progetto di Filippo Juvarra, ri-, inasto a sua volta incompiuto. Il « pedone » torinese in vena di scoperte, prima di abbandonare questo quartiere « medioevale », noti la bizzarra incongruenza stilistica del solitario campanile, che ripete in proporzioni ridotte quella della facciata settecentesca del Palazzo Madama, innestata su un edificio che compendia, dentro e fuori, precedenti stili. Di mirabile unità strutturale appare invece a chi. dalla chiesa di San Domenico prosegue per 1& strada omonima e via della Consolata fino al celebre santuario, la torre di Sant'Andrea. Se ne osservi con attenzione la poderosa mole bruno-rossastra, alta 40 metri, lievemente rastremata, di qualche centimetro, dalla base alla cima, sì che acquista slancio come una colossale conifera. Di derivazione lombardesca, il campanile fu alzato, secondo lo studioso Eugenio Olivero, tra il 980 e il 1014 ed è dunque il più antico monumento di Torino dopo i ruderi romani, splendido esempio di stile romanico. Ne fu architetto il monaco Bruningo, discepolo del grande Guglielmo da Volpiano? Dall'abate Gezone egli aveva avuto ordine di ricostruire la distrutta chiesa di Sant'Andrea dove, al margine della città, si conservava la taumaturgica immagine della Vergine, due volte smarrita e ritrovata: prima con la visione di re Arduino, poi con quella di Giovanni Ravacchio, il «Cieco di Brianzone», che secondo la pia leggenda, venuto d'oltremonte incitato dalla Madonna, avrebbe di colpo riacquistato la vista per scorgere — il 20 giugno 1104 — da Puteum Stratae (Pozzo Strada sulla via di Francia) il miracoloso quadro che brillava di luce ai piedi della torre, da un secolo il più alto segnale cittadino per i viandanti in cammino verso Torino. E da quel lontano 20 giugno prese avvio la «festa della Consolata» che fa illuminare le case dei devoti mentre si svolge il rito religioso nella piazzetta ch'è uno degli ultimi luoghi torinesi dove ancora aleggi il senso d'un tempo remoto. Qui potremmo far punto. Ma chi ha buone gambe spinga la sua esplorazione «medioevale» sulla strada di Settimo, ch'era la via romana adducente, fuori della Porta ora detta Palatina, a Pavia e di qui a Roma. Gli apparirà quanto avanza dell'abbazia romanica di San Giacomo di Stura, fondata con una donazione del nobile torinese Pietro Podisio, del 1146, per l'istituzione d'un ospedale ad uso dei pellegrini. La sua torre campanaria, alta 24 metri, decorata in cotto, costruita sulla fine del Duecento od al principio del Trecento, è un'altra testimonianza d'una civiltà che anche in una Torino che in quei due secoli contava 4000 abitanti diede frutti memorabili. Marziano Bernardi

Luoghi citati: Augusta Taurinorum, Milano, Pavia, Roma, Torino