Quel selvaggio di Bertoldo

Quel selvaggio di Bertoldo Quel selvaggio di Bertoldo Giulio Cesare Croce: « Bertoldo e Bertoldino », BurRizzoli, pag. 158, lire 2000. Anche quando ne ricordano le furberie o le sentenze, quanti sanno che Bertoldo era orribile, un deforme, un mostro, un selvaggio calato dai boschi? Dopo un ritratto senza pietà il suo autore concludeva, panzinianamente: « Insomma costui era tutto il rovescio di Narciso ». Letto e riletto per tre secoli assieme ai Reali di Francia ed al Guerino, Bertoldo si sa ormai per sentito dire; lo si ritrova vagamente, in due metà contraddittorie e complementari, nei burattini delle sere di periferia delle estati emiliane: Fagiolino l'astuto, Sandrone il rozzo. Ma se tra Bertoldo e Sandrone è comune il fisico, lo spirito è andato in Fagiolino e costui è bello, ha ciuffo e sveltezza, denti candidi, piace a vecchie e ragazze. Cosa è successo al vecchio Bertoldo, raccontato da Giulio Cesare Croce nei primissimi anni del Seicento? E' accaduto una specie di equivoco. Il Seicento aveva recuperato il contadino Bertoldo — nel suo tragico ritorno di crisi e miserie e carestie medievali — direttamente dagli opachi bifolchi, dalla memoria dei contadini dannati della scultura romanica. Dei mostri « naturali », che tornavano improvvisi a mendicare e inquietare i cittadini nella depressione economica di flne secolo. Ecco il rozzo Bertoldo arrivare improvviso alla corte stremata del longobardo Alboino, tra l'orrore generale. E il dialogo, difatti, avviene solo tra i due estremi: il Re che in quanto tale ha saggezza di tutto, il poverissimo con le sue saggezze elementari. Un'allegoria da crisi e carestie antichissime; e difatti Croce ricavava la storia da un testo lontano, quel Dialogo di Salomone e Marcolfo già latino, e prima ancora orientale. Poi la crisi passa, o si attenua. Arriva l'Arcadia agraria dell'illuminismo; poi l'ottocentesco progresso delle colture. Mano a mano che — nelle letture serali e corali di campagna — l'intelligenza di Bertoldo diventa soprattutto proverbiale, perde anche i connotati storici originali. Il cervello « fino » ha la meglio, fa sbiadire e assottigliare il fisico « grosso ». Un Bertoldo civilizzato, insomma, salvato dal mais e dalla resa degli aratri di ferro; sempre più simile ad un furbo mezzadro; fino al pronipote Fagiolino che è un giovane contadino curioso, stufo di fagioli e polenta e che tenta fortuna in città. Diventerà artigiano, operaio, socialista. Ma finché esiste una civiltà agraria si porterà dietro, come un granuloso negativo, quel Sandrone che adesso rappresenta il Fagiolino rimasto in campagna: il ritratto oramai bonario della vecchia paura, il selvaggio trasformato in mite bue da lavoro. Finita la cultura delle campagne, finita dunque anche la lettura del libro di Croce. Ce lo ripropone adesso la collana Bur-Strenne di Rizzoli, assieme a quel Cacasenno aggiunto nel 1620 dal musicista bolognese Banchieri, e con le belle incisioni che Ludovico Mattioli aveva ricavate dal Crespi. La prefazione storico-crìtica è di Giampaolo Dossena, e limpidissima. Padre di Bertoldo e Bertoldino era Giulio Cesare Croce, artigiano di San Giovanni in Persiceto rovinato dalla depressione economica; un fabbro ributtato a fare il contadino e dunque bruscamente privato della sua identità sociale. Proprio il processo, e ancora più tragico perché capovolto, del medioevo. Autodidatta spostato, cantastorie nelle strade di Bologna (la nevrosi letteraria). Erano gli anni 1568-1609. Croce aveva quattordici figli da due mogli diverse; cercava un mecenate e naturalmente non lo trovò mai. La sua cronaca era rassegnata e banale, senza rivolta né illuminazione. Era un «picaro» innocente, come dice Dossena. Il secolo in Italia andava come lui, grigio e inerte. I poveri poverissimi, i ricchi più ricchi che mai. E tutti assieme disperati. L'idea del più povero a confronto con il più ricco, dell'abisso fra i due, sarebbe stata giusta; ma questo modesto Croce si limita a tradurre Marcolfo in Bertoldo, le sue « Metamorfosi » sono queste. E sarà per questo che, a rileggere oggi le filastrocche - gare di proverbi con re Alboino, il Bertoldo ci viene quasi a fastidio? Che quasi non ce ne fidiamo, come di un ipocrita che usa quella saggezza che sta sempre nel mezzo, nel buonsenso prudente, nella falsa pazienza della immobilità? Forse, un poco lo sapeva anche Croce. Perché difatti, uscito di scena Bertoldo — stupendamente, ritrovando come di colpo la verità medievale nella zuppa di fagioli negata — col seguito della storia viene fuori il controcanto del figlio Bertoldino. Qui allora è finita la sentenziosità, sono finiti gli enigmi turandotiani (anche loro notoriamente insopportabili, una volta spogliati del cabalistico originale). Arriva a galla il povero e squallido mondo contemporaneo della montagna italiana ma con almeno delle cose al posto dei proverbi. Certo, è più simpatico Bertoldino con le sue follie, gli errori da comiche mute, la sua innocente e coerente negazione della ragione. Viene il dubbio, insomma, che lo amasse di più anche l'autore; e in ogni caso poi ecco la sorpresa dei racconti « alla Màrquez » della madre Marcolfa, subcontinente fantastico, grottesche negromantiche e manieriste. Storie di un preciso farnetico, di una mitologia portata a terra, nella depressione della « mezcla » meticcia. « Nel tempo che le lumache tessevano delle pellicce, si trovarono nella città delle sanguettole alcuni topi, i quali facevano mercanzia di fichi secchi e tenean fornite tutte le città vicine...». Claudio Savonuzzi

Persone citate: Banchieri, Bertoldo Giulio, Cesare Croce, Crespi, Dossena, Giampaolo Dossena, Ludovico Mattioli

Luoghi citati: Bologna, Francia, Italia, San Giovanni In Persiceto