La Cina disegna di Gino NebioloMario Bonini

La Cina disegna I manifesti nel Paese di Mao La Cina disegna Gino Nebiolo: « La Cina dei cinesi », Ed. PriuL & Verlucca, pag. 187 lire 10.000. Quando sarà scritta, una storia delle tecniche propagandistiche del ventesimo secolo — che pure è il secolo della radio, della televisione e del cinema, per non parlare della prossima alluvione delle videocassette — non potrà non dare un posto di primo piano alla grafica, che, anche se il termine ha pochi decenni di vita, è il mezzo di comunicazione che per anzianità contende il primato al linguaggio dei gesti e delle parole. E in nessun campo come in quello della grafica si constateranno differenze così radicali — di contenuto e di forma, d'ispirazione e di mestiere, di indirizzo e d'impiego — a seconda dei regimi politico-sociali e dei climi culturali. Se è vero che certi manifesti spartachisti o bolscevichi degli Anni Venti anticipano forme e approcci che la tecnica pubblicitaria occidentale scoprirà molto piii tardi, e che negli ultimi anni in Polonia e a Cuba la grafica propagandistica ha riscosso questo credito pescando a piene mani fra i moduli più aggiornati e sofisticati deH'advertising visivo di matrice capitalista, è vero altresì che questi punti di contatto sono gli unici, e assai marginali, in un mondo che, quanto a possibilità di intercomunicazione grafica, è ancora una torre di Babele; o forse non lo è ancora, ma anzi lo sta divenendo sempre più. La Cina, per esempio, che Gino Nebiolo ci presenta nel suo splendido libro su «25 anni di grafica rivoluzionaria », è veramente la Cina « dei cinesi » e di nessun altro: non perché risulti incomprensibile ma perché, una volta compresala, fi può misurare ancora meglio l'enorme distanza che ci separa da quella cultura, una distanza certo superiore a quella coperta da Marco Polo o da Henry Kissinger nei loro viaggi a Pechino. Il libro contiene centinaia di esempi della grafica propagandistica cinese: manifesti, illustrazioni di libri, francobolli, sigilli, carte ritagliate, striscioni, stampe, dazebao, copertine, sequenze di immegini (per intenderci, i «fumetti» di Mao già noti grazie al precedente libro di Nebiolo, pubblicato da Laterza). E' una lunghissima, variopinta sfilata di ritratti di Mao, d'immagini di contadini, di operai e di soldati, di mietiture e di colate d'acciaio, di bambini festanti e di vecchi ugualmente festanti, di guardie confinarie vigili e risolute che, brandendo il mitra, scrutano l'orizzonte al di là della frontiera col Vietnam o con la Siberia, pronte a respingere l'attacc" degl'imperialisti americani e dei socialimperialisti sovietici. Fra le tecniche, predominano l'acquarello, l'incisione in legno, lo schizzo a matita: più rara la pittura a olio, d'importazione straniera e per lungo tempo, come afferma il pittore Lieu Chuen-h.ua, usata « al servizio della borghesia e considerata come un'arte riservata ai paesaggi, alle nature morte e ai ritratti ». Ma chi è Lieu Chuen-hua? Oggi ha 29 anni: nel 1968, quando ne aveva 24 e studiava ancora all'Istituto centrale di Arti e Artigianato di Pechino, ha dipinto, usando appunto la tecnica a olio, un quadro dal titolo II compagno Mao Tse-tung in strada per Anyuan, « concepito collettivamente » dalle guardie rosse delle scuole della capitale durante la fase più aspra della rivoluzione culturale. Perché a olio? Perché è una tecnica che offre possibilità superiori a quelle dell'acquarello: e perciò è stata adottata in omaggio all'insegnamento di Mao che «il passato serva il presente, ciò che è straniero serva ciò che che è nazionale ». Il quadro dipinto da Lieu Chuen-hua, che ristabiliva una verità storica attribuendo unicamente a Mao, e non al traditore Liu Sciao-chi, il merito di aver diretto uno sciopero di minatori nel 1921, è stato riprodotto in 90 milioni di copie, probabilmente la maggior tiratura mai raggiunta da un'opera grafica. Il dipinto raffigura un Mao giovanissimo e austero che, indossando una lunga tonaca e tenendo nella destra un om brello ripiegato, procede a te. ta alta, e col pugno sini- stro chiuso, su uno sfondo dì montagne e di nubi. Nel 1969 uno dei 90 milioni di esemplari andò a finire a Roma, in Vaticano, e i dirigenti dell'ufficio stampa della Santa Sede, tratti in inganno dall'abito, scambiarono il ritratto per quelfo d'un missionario e l'appesero a una parete della sala frequentata dai giornalisti, donde venne fatto scomparire quando fu chiarito l'equivoco. Il qui prò quo dice molto sull'inesportabilità di certa propaganda: quello che per i cinesi è un manifesto di lotta politica, a qualcuno può apparire come una glorificazione dell'attività pastorale. Ma questo è un solo esempio, e gli esempi invece, come abbiamo detto, sono centinaia. Vale la pena di guardarli tutti con attenzione: in ciascuno v'è qualcosa d'interessante e di illuminante. La grafica cinese negli ultimi venticinque anni ha conosciuto svolte e terremoti, restaurazioni e correzioni: i motivi del reriodo dei « Cento Fiori » non sono quelli della rivoluzione culturale, il « grande balzo in avanti » è stato propagandato in modo diverso dalle parole d'ordine odierne. Resta ben ferma, comunque, una constatazione di fondo: non meno dei caratteri ideografici, le immagini parlano un linguaggio che non è il nostro. La Cina dei cinesi è lontana. Mario Bonini Un eroe popolare in una stampa di Mao