Israele: l'ombra del Kippur sulle elezioni di Andrea Barbato

Israele: l'ombra del Kippur sulle elezioni Israele: l'ombra del Kippur sulle elezioni (Segue dalla 1" pagina) que, non solo per governare ma neppure per imporre quel governo di coalizione che reclama a gran voce. La sua campagna elettorale è stata in fondo stonata e distruttiva, ha fatto spesso appello al frontismo nazionale e alla pretesta, non ha proposto alternative. «La nostra debolezza», mi dice un commentatore del Maariv, un giornale che appoggia la destra, «è quella di sapere che i negoziati sono inutili, ma di non poter opporre nient'altro». Quasi tutti sono dunque convinti che «nonna Golda» ce la farà ancora e che la vera lotta elettorale si svolge all'interno del fronte laburista, il Maarah, per il predominio di una corrente sull'altra. Proprio l'immagine politica di Golda Meir è in pericolo, non pochi prevedono che dopo avere accompagnato il partito alla vittoria, sia pure ristretta, voglia andarsene. La dicono stanca, incapace di adattarsi alle idee nuove, prigioniera politicamente di Dayan. Ricordano le sue lacrime pubbliche durante la guer¬ ra, rimproverano la sua eccessiva fiducia nel duo NixonKissinger. «Il suo governo ha visto la più breve tregua fra due guerre, e prima non un solo giorno di pace sul Canale», aggiungono. Golda stessa ha promesso giorni fa «facce nuove» nel prossimo governo, perché ha sentito nell'aria l'esigenza di un cambiamento. Ma qualcuno fa già il nome dei suoi possibili successori: forse Pinchas Sapir, ministro delle Finanze, forse il suo stesso vice, Allon, ma non prima di qualche tempo. Il fatto è che il fronte laburista, e il partito Mapai in particolare, più che un raggruppamento politico sono una federazione di idee, di correnti e di interessi. Si identificano con la storia nazionale, con la tradizione del sionismo, con l'eredità di Ben Gurion, sebbene quest'ultimo abbia anche insegnato la strada delle scissioni e dei partiti personali. Nel laborismo si trova di tutto, per tutti i gusti elettorali: il pacifismo dell'ex segretario Eliav, la moderazione di Eban e di Allon, l'operaismo del dirigente sindacale Ben Aaron, la gloria militare di generali come Bar Lev, Rabin o Yariv, l'annessionismo «pacifico» di Calili, autore di un piano per la colonializzazione delle zone occupate, la forza elettorale dei sindaci delle maggiori città israeliane e, in definitiva, l'utopia e la Realpolitik. Il risultato, nell'immagine pubblica del partito, è quello di una pace armata, una disposizione a negoziare ma senza debolezze. «Oggi le possibilità di pace sono le miglioil che ci siano mai state», mi dice Itzhak Rabin, capo di stato maggiore durante la « guerra dei sei giorni », poi ambasciatore a Washington, e certamente futuro ministro. «Ma le frontiere del 1967 devono rimanere finché esiste una minaccia militare». Quej sta, in Israele, è una posizione mediana, centrale, per quanto intransigente possa sembrare. No: la lotta elettorale qui non è tra falchi e colombe, ma fra due diversi tipi di falchi. E ciò anche se gli intellettuali, i giovani quadri del partito, l'ala sindacale, l'apparato di Tel Aviv premono per far adottare al laborismo una linea più moderata e un nuovo approccio al problema arabo. Infine, c'è il problema per- ] sonale di Moshe Dayan. in un Paese che ha resistito alla tentazione militare, ma dove la politica è profondamente influenzata dai generali, il mito di Dayan è scosso ma resiste. Il comitato centrale laborista, ridando la fiducia a Golda Meir, ha coinvolto nell'assoluzione politica anche lui. Un'ala del partito ne chiede la testa, ma la sua capacità di attrazione elettorale è quasi intatta. La destra nazionalista lo corteggia e lo attacca insieme, gli rimprovera l'esito della guerra ma spera anche di staccare il suo gruppo dalla maggioranza. Dayan è il più attivo di tutti, parla in ogni angolo del Paese, incita al negoziato ma anche alla vigilanza militare, predica l'annessione ma anche la politica dei «ponti aperti». Non sembra d'accordo con nessuno, nemmeno con se stesso; incrinata la sua leggenda Militare, vuole ripagarsi con l'empirismo del politico. Se c'è un uomo che potrebbe fare concessioni agli arabi, senza essere accusato di cedimento, è lui. E questo è il segreto della sua sopravvivenza. A pochi giorni dal voto, l'elettorato israeliano è sconcertato, la percentuale degli indecisi è alta, conflitto e negoziato fanno tentennare quello che fino a ieri era il più stabile elettorato di qualsiasi democrazia. Anche chi vuole la pace non crede nella buona volontà araba. Anche chi non reclama conquiste territoriali si domanda cosa sarebbe accaduto in guerra se le frontiere fossero state quelle antiche e vicine. I programmi dei partiti si somigliano, disegnano tutti, in definitiva, l'immagine di Masada, la fortezza assediata. Golda Meir vincerà ancora, ma la vera battaglia avverrà dopo, quando il nuove governo dovrà scegliere il futuro storico di Israele, i suoi limiti, i suoi rapporti con i palestinesi, la sua condotta nel negoziato. Se poi Golda dovesse essere sconfitta non ci sarà più Ginevra. Ecco perché la scelta israeliana di lunedi è importante. «Malgrado tutto, laborista», è lo slogan un po' rassegnato dei socialisti israeliani, e in queste ore è forse lo slogan della maggioranza. Andrea Barbato

Luoghi citati: Ginevra, Israele, Tel Aviv, Washington