Cori di A. Gabrieli e Bussotti
Cori di A. Gabrieli e Bussotti Con gli "Amici della polifonia" diretti da Piero Cavalli Cori di A. Gabrieli e Bussotti Più che raddoppiato l'organico del glorioso Sestetto Marenzio, e assurto ormai esclusivamente alla direzione il fondatore, e quondam basso Piero Cavalli, un nuovo organismo di coro cameristico, che s'intitola «Amici della Polifonia», ha portato l'altra sera ai soci dell'Unione Musicale un vero e proprio incunabulo della musica teatrale, e cioè tre dei quattro cori che Andrea Gabrieli scrisse per la rappresentazione dell'Edipo tiranno sofocleo, nella traduzione di Orsatto Giustiniani, con la quale s'inaugurò, il 3 marzo 1585, il Teatro Olimpico di Vicenza, su progetto di Andrea Palladio. Ciò che più colpisce in queste musiche del Gabrieli è la scrupolosa sillabicità corale a cui egli si attenne, sottomettendo l'invenzione melodica alle esigenze del ritmo e della perfetta pronuncia della parola. Il risultato è una specie di continuo cadenzare, un «recitar cantando» corale, non meno intellettualistico di quello monodico dei fiorentini. L'attenzione scrupolosa alla parola arriva al punto di spezzare con una pausa (residuo del medioevale hoquetusj le parole «interrotta» e «singulti» (nel primo Coro). Principal mezzo che il compositore si riserva, a scopo di varietà fonica ed espressiva, la mutevole disposizione delle voci, che vanno dal duo (e perfino, in qualche caso, dal solo) fino a un massimo di sei: manovrato, questo mezzo, con straordinaria sottigliezza, quale già aveva mostrato, nel secolo precedente, il franco-borgognone Dufay. Naturalmente tanto maltusianesimo melodico non va esente da un certo rischio di monotonia; di questa impressione si era fatto interprete il professor padovano Antonio Riccoboni, presente allo spettacolo vicentino, il quale non s'era peritato di biasimare «un canto sempre uniforme che non lasciava intender le parole, che rasembrava frati o preti che cantassero le lamentazioni di Hieremia». Il coro diretto da Piero Cavalli non ha perduto nulla della sua raffinatezza raddoppiando le parti, ed è stato vivamente applaudito, insieme col direttore e con Sylvano Bussotti, che ha letto con la ; sua collaudata intelligenza di dizione, anche se con voce un po' grave, i testi introduttivi dei singoli cori. A lui, come autore, è stata dedicata la seconda parte del programma, dapprima con l'esecuzione di El carbonero, «grottesco a 5 voci da motivo popolare spagnolo». E' un breve lavoro, di piacevole ascolto, che Bussotti ha tratto dai suoi cassetti, scritto nel 1957 a Parigi, quand'era a studio dallo schoenberghiano Max Deutsch. Un compito d'armonia, egli lo definisce modestamente: in realtà è un pezzo vivacissimo, dove il coro classico viene trattato con quella libertà e con quella spregiudicatezza di cui per esempio Dallapiccola aveva dato prova nei suoi giovanili Cori di Michelangelo. A questo valido ricupero, di cui è stata riservata la primizia al concerto torinese, faceva seguito una «suite», si potrebbe dire, dei cori a cappella del Lorenzaccio, l'opera di cui si parlò l'anno scorso in occasione della sua rappresentazione a Venezia, e recentemente rimessa in scena dall'Opera di Amburgo. Per l'esattezza si tratta dei cori a cappella dei primi tre atti, che quelli degli altri due costituiscono un blocco compatto, praticamente coincidente col Rara Requiem, di prossima esecuzione a Torino. Qui si manifesta un altro tipo di coralità contemporanea, con quel rimescolamento delle parole che dà luogo a una specie di sublimazione del madrigalismo cinquecentesco, quasi depurato della parola. Questa continua ad operare come semantema (mi scuso, voglio dire: col suo significato), ma viene abolita, o per lo meno dissimulata come fonema, dando luogo a una polifonia di lamenti e di gridi, in una vibrazione lirica assoluta. Per l'appunto: la ricerca dell'Assoluto lirico, si potrebbe definire questo tipo di nuova vocalità corale, che Bussotti, Nono e Berio sono venuti elaborando. Si potrebbe parlare di un «nuovo neomadrigalismo» italiano, così come, dopo la guerra, la «Nouvelle Revue Francaise» s'era aggiunto vn altro «Nouvelle», facendosi chiamare «Nouvelle Nouvelle Revue Francaise ». Nella sua intensità di vibrazione lirica il nuovo neomadrigalismo italiano sembra ispirarsi a un mezzo verso di Dante: «voci alte e fioche». Il suon di man con elle ce l'ha messo il pubblico, che ha applaudito intensamente i bravissimi esecutori (tra cui, in funzione solistica, i soprani Joan togue e Liliana Rossi), il direttore Cavalli e l'autore, m. m.
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