Giornalismo in Africa di Ferruccio Borio

Giornalismo in Africa Università di Nairobi, quattromila studenti Giornalismo in Africa Chi scrive ha tenuto un breve corso sui "princìpi dell'informazione" ad allievi del Kenya, della Tanzania, dell'Uganda - Sono sicuri, forti, fiduciosi, sanno che il futuro è nelle loro mani - A poco a poco si avverte il problema di fondo: vogliono essere soprattutto "africani" (Dal nostro inviato speciale) Nairobi, 12 dicembre. Il prof. McAteer, 42 anni, imprestato dal governo inglese al Kenya per organizzare l'Istituto di giornalismo nell'Università di Nairobi, osserva attraverso lo spioncino, schiude le pesanti porte e mi fa cenno di entrare. L'aula è immersa in una tenue luce uniforme, non si vedono finestre, siamo sulla balconata che scende verso il palco dell'insegnante. Al microfono c'è un giovane in maglia bianca, accollata; alto, magro, la testa piccola e lunga, tipico kikuyu, la tribù dominante. Parla della conoscenza nell'arte. Una scritta solca la parete: «Praising what is lost makes the remembrance dear», Shakespeare. Il professore afferma che non si può capire la poesia ammirando solo il ritmo delle parole: «Dobbiamo cercare il significato universale delle cose e riviverle nella nostra tradizione culturale». Il termine tradizione culturale è diventato uno slogan per la gioventù universitaria africana Tutti i posti, forse trecento, sono occupati. Mi accorgo che la sala è insonorizzata. Usciamo in punta di piedi. McAteer mi accompagna davanti alle altre aule. Dagli oblò vedo la stessa scena: folla di studenti, marmi lucidi e un silenzio da cattedrale. Siamo nella facoltà di Lettere. Nel portico ci assale il sole caldo dell'estate. Innanzi a noi si stende un enorme giardino di rose, bougainvillee, ibisco e frangipane, una cascata di colori sino al monumento che simboleggia la cultura nera: tre gazzelle grandi come giraffe di fronte a una pagina di pietra alta come il primo piano. L'Università di Nairobi, nuovissima, occupa due ettari di terreno alla periferia della città. Nei campus vivono 4 mila studenti; vi sono istituti e laboratori di ricerca, due grandi biblioteche, due teatri, impianti sportivi e piscine, meravigliosi giardini fioriti tutto l'anno. La scuola di giornalismo non ha ancora una sede, è in un prefabbricato accanto agli istituti di statistica «Ma il prossimo anno vedrà — mi dice McAteer — qui hanno fretta di fare e in realtà le cose non rimangono sulla carta». Siamo all'ultima lezione del mio seminario di giornalismo. E' durato una settimana, un'ora al mattino e un'ora al pomeriggio. Con me sono stati invitati il professor Calimeri dell'Istituto professioni nuove e Mr. Jakande, «a leading West African journalist». Mr. Jakande, nigeriano, ampia tunica giallo tenero con ricami e pizzi, è già stato intervistato dal Daily Nation sui rapporti tra il governo e la stampa. Io ho partecipato a un dibattito in presa diretta alla tv sulla funzione del giornalismo. Non c'erano accordi preventivi e ho potuto esporre le mie idee sulla libertà di stampa, «un argomento incandescente per tutta l'Africa». Se dovessi giudicare da questo episodio personale, dovrei dire che il Kenya è tra i Paesi più democratici del mondo. Nell'aula sono riuniti i ragazzi dei due corsi, la maggior parte sui 22-23 anni, molti già praticanti nei giornali di Nairobi, della Tanzania, dell'Uganda o nei servizi comunicazioni dei tre governi. Vestiti all'europea, vengono da famiglie ricche di funzionari o di farmers. Nei giorni scorsi ho parlato sui sistemi di informazione, ho portato grafici e statistiche sulla produzione libraria, sui giornali, radio e tv nel mondo; ho accennato ai doveri del giornalismo, a quello che dovrebbe essere il giornalista, come si serve o si dovrebbe servire la libertà di stampa. Oggi la parola spetta a loro. Sono ragazzi sicuri, sanno di appartenere alla classe forte, il futuro del Kenya sarà nelle loro mani. Caratteristica della gioventù è di affrontare con disinvoltura i problemi più gravi. Comincia una ragazza: «Lei ha detto che senza la libertà di espressione non si può parlare di democrazia e quindi di lotta per l'uguaglianza e la giustizia. In Italia esiste la libertà di stampa? Esiste in America? Esiste nell'Unione Sovietica?». Rispondo: «In Italia esiste una sufficiente libertà di informazione. Negli Stati Uniti la libertà è più ampia, basti ricordare il caso Watergate, la denuncia My Lai nel Vietnam, le dimissioni di Agnew. In America la libertà di stampa è profondamente radicata nello spirito della democrazia. Non così si può dire per l'Unione Sovietica». Un giovane di Dar es Salaam, lavora nel Daily News: « Ma la libertà assoluta sarebbe anche libertà di danneggiare il proprio Paese. Ritiene che sia giusto? Non è meglio parlare di obbiettività? E poi lei si contraddice quando afferma che bisogna dire il vero e che l'obbiettività però è impossibile». Un ragazzo del Broadcasting Department: «Secondo noi la pubblicazione della notizia così com'è non soddisfa le esigenze dell'informazione. Il popolo non può capire un avvenimento se il giornalista non lo interpreta. Perché lei dimentica la quinta W della regola "what, who, where, when, why" (che cosa, chi, dove, quando, perché)?». Risposta: «Non intendo affai to dimenticare il why. Sostengo che bisogna dire la verità anche quando è spiacevole; affermo che essendo impossibile l'obbiettività assoluta, si deve precisare: io ho visto, ho sentito, il tale mi ha detto. L'interpretazione non è vietata, ma il giornalista ha il dovere di dire al lettore: dopo il racconto dei fatti, questo è il mio parere e sono disposto a pubblicare anche la versione di chi la pensa in modo diverso». Un altro ragazzo: «Queste cose in Italia le fate, o sono soltanto teoria?». «In Italia non è vietato farle e qualcuno cerca anche di farle, ma bisogna essere sempre di più in tutto il mondo». L'orario è trascorso e parecchi studenti vogliono ancora parlare. Li invito nella hall del mio albergo. Qui i temi si allargano. Per finire faccio ad ognuno la stessa domanda: qual è il più importante problema per l'East Africa? Il giornalista di Dar es Salaam (Tanzania): «11 problema più importante è l'unità socialista. Nel mio Paese e in Uganda questa necessità è più sentita, in Kenya non ancora, anzi a Nairobi si continua a credere che l'aiuto dei bianchi sia indispensabile. Non è così. Anzitutto abbiamo la terra e dobbiamo lavorarla noi. C'è il turismo con i dollari, ma ha molti lati negativi perché mette il popolo in condizioni di sudditanza. Dobbiamo completare l'istruzione risolle¬ vando la nostra cultura che è stata brutalizzata dalla colonizzazione. Non si tratta di andare con gli americani o con i russi, bisogna seguire la strada del socialismo africano. Quando? Tra dieci anni, spero». Un giovane Luo, la più forte tribù rivale dei Kikuyu: «Il problema è l'ineguaglianza dei redditi. Dopo Kenyatta le cose dovranno cambiare. Non è possibi¬ le che su 20 ministri 10 siano Kikuyu. su 20 segretari i Kikuyu siano 15, su 20 organizzazioni africane i Kikuyu ne tengano 18. Noi siamo per un socialismo riformista, non tipo Uganda, ma come la Danimarca». Uno studente di Nairobi: «In dieci anni di indipendenza il Kenya ha fatto molto, non vedo perché si debba cambiare sistema. Certo dobbiamo provvedere all'occupazione, alle scuole, all'agricoltura, agli ospedali. Bisogna anche potenziare il turismo. Non credo che Tanzania e Uganda abbiano ricavato profitto dalle affrettate nazionalizzazioni. Il passaggio del potere agli africani deve avvenire senza scosse. Questa è la vera integrazione e la faremo noi. L'avvenire ci darà ragione». Ferruccio Borio Nairobi. Uno dei moderni edifìci dell'Università, che occupa due ettari di terreno alla periferia della città

Persone citate: African, Kenyatta, Shakespeare