Danimarca, si vota

Danimarca, si vota Anticipate le elezioni generali Danimarca, si vota Nuovi partiti sono sorti negli ultimi tempi - Si prevede un forte calo dei socialdemocratici, che hanno subito scissioni - Insofferenza per le alte tassazioni : uno dei motivi della campagna elettorale Non sono passati che due anni dalle ultime elezioni generali, e i danesi tornano domani alle urne nel tentativo di ridare ordine e stabilità alla loro vita politica. Ma le prospettive sono scoraggianti, per non dire inquietanti. Il panorama elettorale è dominato dalla probabilità di una disfatta socialdemocratica, la più rovinosa forse nella lunga e nobile storia di questo partito: disfatta che. se non sarà accompagnata dall'avvento di un nuovo equilibrio politico, inasprirà la già grave crisi. Da qualche anno a questa parte, Norvegia, Svezia e Danimarca offrono un singolare spettacolo. Sono ricche, elargiscono mirabili servizi sociali, sono oasi di pace e civiltà: eppure, la loro direzione politica è divenuta sempre più difficile, investita com'è dalle delusioni e aspirazioni di migliaia di cittadini e dalla presenza di un nugolo di partiti, al cui confronto i nostri sono sparuta pattuglia. In settembre, i socialdemocratici norvegesi hanno perduto l'undici per cento dei voti, anche se, paradossalmente, sono tornati al potere grazie al successo di uno schieramento alla loro sinistra. Pochi giorni dopo, arretravano i socialdemocratici svedesi, già in declino dal '70, e Olaf Palme cerca adesso di governare con un Parlamento spaccato a metà, 175 seggi tra socialisti e comunisti e 175 ai tre partiti «borghesi ». La tendenza emersa in Norvegia c in Svezia si ripeterà quasi certamente in Danimarca. Non vi possono essere molti dubbi se il premier e leader socialdemocratico Anker Joergensen dichiara a un comizio operaio: « Non facciamoci illusioni. Quando chiuderanno le urne, ci troveremo col sedere a terra ». La domanda è un'altra. Quanti votanti abbandoneranno il « Socialdemokratiske Parti » e si rivolgeranno altrove? Le previsioni della vigilia sono drammatiche. Dal 37,5 per cento delle elezioni del '71 il suffragio socialdemocratico piomberebbe a poco più del 20 per cento (da 50 anni questa percentuale non è mai scesa sotto il 25). Un simile tracollo porterebbe il numero dei suoi deputati nel Folketing, il parlamento, da 70 a 40 circa. Ciò premesso, occorre affrontare l'esame dei partiti danési. Dal 1915, quando fu introdotta la proporzionale, quattro partiti hanno determinato l'evoluzione della Danimarca: i socialdemocratici, i liberali, che rappresentano gli agricoltori, i conservatori, che rappresentano i ceti commerciali industriali, e i radicali, noti anche come social-liberali, una via di mezzo tra il campo socialista e il nonsocialista. Sono questi quattro partiti che hanno creato la Danimarca moderna, con il suo « Welfare State » di classico modello scandinavo, con la sua economia sempre più industriale ma tutt'altro che incurante dell'agricoltura, la sua armonia sociale. Il panorama cominciò a mutare nel '60, con la comparsa di un quinto movimento, il partito socialista del popolo. Da allora, la fisionomia tradizionale è divenuta irriconoscibile. L'inverno scorso è nato il partito del progresso, schiettamente poujadista, che chiede l'abolizione di ogni imposta per i redditi inferiori ai sci milioni di lire l'anno, nonché drastiche economie nelle spese pubbliche. Lo dirige un vivace avvocato, Mogcns Glistrup, il cui « appeal » è innegabile se in agosto i sondaggi gli attribuirono ben il 26 per cento dei suffragi. Non privo di humour, Glistrup sostiene ad esempio: «Che ci stiamo a fare nella Nato? Quattrini sprecati. Ci bastano uh impiegalo, un tavolino e un telefono. Se il Cremlino vuol fare la guerra, chiama e l'impiegato risponde "ci arrendiamo"». All'inizio di novembre, altro partilo, i democratici del centro. Lo ha fondato un secessionista socialdemocratico, Erhard Jacobsen, « disgustato » dalla spinta verso sinistra. Se a questi sette partiti si aggiungono gli altri di minor peso, il comunista, il cristiano-popolare e quello per un'« unica tassa », si ha un totale di almeno dieci: ed è fra essi che devono scegliere i danesi. In altri tempi, la presenza di tanti candidati non avrebbe preoccupato, i voti tendevano a dirigersi o verso il « Socialdemokratiske Parli » o verso l'opposizione « borghese ». Ora, invece, il polo socialdemocratico s'è indebolito, e si sono indeboliti pure i conservatori e i liberali, ma non si sa a chi andrà la fiducia né in quale misura. Si sa soliamo che i danesi, pur non volendo svigorire il « Welfare State », vorrebbero che costasse meno, considerano eccessivo il fardello fiscale, giudicano mal direna l'economia. La polemica elettorale ha investito anche l'adesione alla Cee, che finora non ha portato ai danesi molti benefìci; ma non e tra i temi principali. Si ritrova piuttosto l'atmosfera notata in Svezia: la convinzione che i socialdemocratici non abbiano più nulla da dire e che la pesantissima tassazione debba essere sostituita da nuovi incentivi (le imposte costituiscono il 52 per cento del prodotto lordo). Altri respingono i socialdemocratici, ma per il motivo opposto, e vogliono una sterzata a sinistra. Dovrebbero pertanto avanzare i due partiti nati quest'anno, quello di Glistrup e i democratici del centro. E forse i socialproletari e i comunisti. Mario Cìriello

Persone citate: Anker Joergensen, Erhard Jacobsen, Mario Cìriello, Olaf Palme

Luoghi citati: Danimarca, Norvegia, Svezia