Mario Soldati non va "in Rai,,

Mario Soldati non va "in Rai,, L'AGENDA DI F. & L. Mario Soldati non va "in Rai,, Una lieve, ma deliziosa, coincidenza ha fatto si che nello stesso giorno, il 23 novembre scorso, uscissero su questo quotidiano e sul Manifesto due articoli intorno al film di Bergman Sussurri e grida. Erano più o meno della stessa lunghezza, rispondevano entrambi a precedenti articoli scritti da signore (Natalia Ginzburg e Lalla Romano il primo; Rossana Rossanda il secondo), ma erano poi firmati, ovviamente, da due scrittori diversissimi tra loro, Mario Soldati e Franco Fortini; l'uno d'indole, se non di tessera, conservatrice e tradizionalista, l'altro di caldi sentimenti extra-parlamentari e tabularasanti. Sennonché, a leggere i due articoli senza il suggerimento delle rispettive testate, si sarebbe potuto incorrere in un imbarazzante equivoco. La prosa di Fortini appariva attorcigliata come un pretzel. Quella di Soldati, lineare come un grissino. Fortini trovava necessario aprire (e chiudere) ben 19 parentesi. Soldati, una sola. Il primo sembrava preoccuparsi principalmente dell'effetto che le sue opinioni avrebbero forse prodotto su pochi fidati amici, esperti nell'acchiappare a volo i più allusivi moscerini ideologici. Il secondo, senza rinunciare a una sua definizione teorica della questione, era al contrario attentissimo a farsi capire dal maggior numero possibile di lettori. Chi dunque, dei due, era l'aristocratico, e chi il democratico? Chi soccombeva all'antico vizio italiano della cultura per iniziati, e chi riusciva invece a liberarsene? Chi era il progressista, e chi l'oscurantista? II dubbio non durava che un attimo, subito dissipato da questa constatazione: fra le tante cose che Fortini diceva o tentava di dire, quella che non si capiva assolutamente era se il film gli fosse piaciuto o no. Mentre proprio questo era l'oggetto dell'articolo di Soldati, e il vero borghese non poteva quindi essere che lui. La ragione è evidente. Lo scrittore che detesta l'ordinamento borghese, finisce per parlar d'altro anche quando parla di una gassosa. Il suo rapporto diretto, personale, con quella particolare bottiglietta in quel particolare bar, non lo interessa: mentre si porta il bicchiere alle labbra egli vedrà, con irresistibile automatismo, il problema dei baristi e degli orari dei locali pubblici, il problema degli imbottigliatori e delle relative macchine, vedrà il monopolio dei baroni della gassosa e la loro segreta influenza sulla questione meridionale e sulla rima baciata. Al massimo rifletterà, turbato da breve amarezza, di non essere sfuggito neppure lui alla campagna consumistica condotta da quella occulta potenza, e berrà la sua bibita senza piacere e soprattutto senza curarsi di dire se fosse gradevole, fresca, tiepidiccia, iperzuccherata, e se, in conclusione, gli abbia o no levato la sete. Lo scrittore borghese non è tanto che, coscientemente, deliberatamente, approvi le malefatte dei capitani d'industria e batta le mani ai negrieri; ma si riconosce alla prima occhiata dal fatto che il rapporto personale con le cose e le persone sta al centro dei suoi interessi. E' un rapporto di amorosa, avida, possessiva concretezza, di cui l'esempio classico si trova nel Diario di Samuel Pepys, il mercante londinese del Seicento che parlando della sua vita e del suo tempo ci lasciò una rozza ma inestimabile radiografia di quella che si potrebbe appunto chiamare la struttura ossea dello scrittore borghese. Mario Soldati non è un sanguigno inglese del Seicento, vive nel nostro labile, smaliziato, artefatto tempo, e ha sulle spalle, e nella penna, tre secoli di letteratura. Ma anche Un prato di papaveri, il suo ultimo libro appena pubblicato da Mondadori, si presenta come un diario, e anche qui la nota dominante è data senza dubbio dall'immediata, spontanea, ghiotta tesaurizzazione di una, di quella, bottiglietta di gassosa. Tutto incuriosisce Soldati, lo affascina, lo diverte, Io riguarda; si sente che, se ne avesse il tempo, si fermerebbe ad annotare praticamente tutto. Lui, frenetico viaggiatore, ancora «vede» la bella sconosciuta in treno, registra la stazione di Rapallo di notte, ride del senatore abusivo senza tesserino permanente. Scrive splendide, coloratissime pagine su una partenza del Tour da Parigi, ma sa anche rievocare quanto ci fosse di poeticamente « politico » nel nome di un corridore straniero, Trueba, sotto il fascismo. Ignaro di tennis, assiste a una partita tra due grandi campioni e subito si annette quel gioco, ne divulga entusiasticamente le sottili, geometriche bellezze. Lo stesso fa con Cima da Conegliano, di cui visita una mostra a Treviso; ma non ritiene meno memorabili di quei dipinti le immagini della città stessa, dei suoi abitanti, del suo paesaggio, e di Giorgio Bassani, che telefona interminabilmente. Tratta le persone con uguale generosità. Il ritratto di un bizzarro barbiere francese confina con un commosso e pungente ricordo sui funerali di Benedetto Croce. Un oscuro attore caratterista merita lo stesso numero di pagine e di affettuose pennellate del presidente Luigi Einaudi, che di fronte alle telecamere non riesce a sorridere a freddo. Un misterioso avvocato Capelletto appare per un istante in una chiesa; e per un istante appare Alberto Moravia che legge in dialetto piemontese, con atroce accento, Monsìt Travet, A Torino, Soldati dedica osservazioni infallibili e ondulati rimpianti, ma se di un libro come Un prato di papaveri si può dire che abbia un filo melodico, questo è certamente di timbro torinese. La città è sempre presente, ora ricordata in un aneddoto, una macchietta, una battuta casuale, un meticoloso dettaglio topografico, ora contrapposta ad altre città, ora presa come termine di riferimento morale o di costume, oppure come pretesto per un esame di coscienza, per una alternativa di vita. Ah, se fossi rimasto a Torino! esclama Soldati, tra ingenuità e civetteria, sapendo perfettamente di non possedere la falsa modestia, l'ironica staticità necessarie per giocare il gioco torinese, e tuttavia inseguito, nelle sue libere e golose peregrinazioni, dalla lunga ombra di quegli ideali, forse ingigantiti dalla distanza, di sobrietà, buon senso, saggia limitatezza. Poiché è, grazie al Cielo, un peccatore per eccesso, libero da ogni forma di avarizia e inappetenza, si fa perdonare un inno alla conca di Bardonecchia che in sostanza pone, per questa pur rispettabile località, la candidatura alla carica di Ottava Meraviglia del Creato. E se si abbandona alle lacrime davanti a Carducci e Puccini, a Saba e a Giovanni XXIII, se non capisce D'Annunzio e sopravvaluta Guido Gozzano, è però capace di una magistrale lucidità poliziesca nell'indagine che conduce, fra rime e colline canavesane, alla ricerca della « vera » casa del poeta di Agliè. A che punto si dovrà fermare la nostra invidia per que- st uomo cosi vivo, scoperto, prodigo, instancabile, insaziabile, baciato a ogni cantonata dall'angelo della disponibilità? E' possibile che gli vada tutto bene, che tutto per lui sia spettacolo? Che gli piaccia davvero tutto, i temperini come Stevenson, la pasticceria Baratti come l'Ariosto, una volpe sulla neve come la casa di Garibaldi a Caprera? No, Soldati non abita sulla Luna e non è un mostro di felicità. Le spine (che egli chiama coltellate) ci sono anche per lui. Turpi edifici in luoghi incantevoli, provoloni nel frigorifero, sconce intrusioni di neon in antiche botteghe, fazzoletti che spuntano dal taschino dei nostri deputati, preti al volante, i diacci sudori prodotti dall'aria condizionata, e soprattutto, trattandosi di uno scrittore, certe ripugnanti cretinerie e volgarità di linguaggio. « Perché incontrare scritta la parola "cofanetto" a proposito di certe mezze scatole, che secondo un'usanza oggi di moda trattengono insieme alcuni libri è, per me, come ricevere una coltellata? ». Oppure: « Posso sopportare Roma: ma Rrrroma assolutamente no ». O ancora: « Vorrei andare a fondo e capire perché mai le espressioni ahimè sempre più in uso: "Ci vediamo in Fiera", "L'ho visto oggi in Fiat", o addirittura " Arrivederci in Editrice ", siano per me come tante pugnalate... Ma è certo che prima di dire " Vado in Rai ", morirò ». Una battuta? Un'esagerazione? Fino a un certo punto. Una cultura, una civiltà, è minacciata anche da queste apparenti minuzie, orride spie di ben altri cedimenti, di ben più radicali e folli devastazioni, cui Soldati, senza parere e magari senza saperlo, oppone tutto il suo libro, la sua fitta, consolante trama di garbate visioni, di piaceri non di seconda mano, di umorismo non stridulo, di naturale eleganza e naturale acutezza. Si dirà che fra ecologia e crisi del petrolio (per lasciar stare il resto) un simile modello di esistenza non è più possibile oggi, e che del resto nessuno è più tentato di seguirlo. « Bisogna rassegnarsi alla decadenza » osserva lo stesso Soldati in una nota del 1953. Non siamo d'accordo. La storia, come la vita, come la letteratura, è piena di sorprese e di recuperi, e nulla prova che vinca sempre il peggiore. E se poi, disgraziatamente, così dovesse andare, se lo mettessero al muro ordinandogli di gridare « in Rai! », Soldati può star certo che quel giorno, davanti al plotone di esecuzione, ci saremo, con lui, anche noi. Carlo Frutterò Franco Lucentìni

Luoghi citati: Agliè, Bardonecchia, Conegliano, Parigi, Rapallo, Roma, Torino, Treviso