Medico sui monti di Cuneo

Medico sui monti di Cuneo E uno dei tre premiati con medaglia d'oro Medico sui monti di Cuneo I ricordi del dott. Andrea Pacotti, titolare della condotta di Boves - Ha fatto nascere un centinaio di bambini in casolari sperduti, ha curato partigiani feriti, ha rinunciato a un incarico più comodo per non abbandonare i suoi malati nelle frazioni di montagna - Tutti gli sono riconoscenti e lui dice: "Non facciamo chiasso. Che ho fatto? Niente, solo il medico" r'Oai' nostro inviato speciale) Boves, 29 novembre. Stanno per essere assegnate le tre medaglie d'oro della Fondazione milanese Carlo Erba «Missione del medico». Uno dei premi tocca al dottor Andrea Pacotti, medico di Boves (gli altri a un medico di Taranto e uno di Ginevra). Il dottor Pacotti non è soltanto medico condotto: è dentista, ostetrico, otorinolaringoiatra. Ha fatto nascere un centinaio di bambini in casolari sperduti di montagna, ha salvato tante vite, molte di partigiani. Dice il vicesindaco Dino Cerutti: «Siamo felici per questo riconoscimento: è ancora uno dei medici condotti che sente profondamente la sua missione; durante la guerra si è prodigato fino al limite delle proprie possibilità e con grandi rischi per alleviare le sofferenze della popolazione. E dopo ha continuato il proprio lavoro in umiltà». E don Michele Pellegrino, del santuario Madonna dei Boschi, che lo conosce dal primo giorno del suo servizio a Boves: «La scelta per il premio non poteva essere più adatta: il dottor Pacotti è sempre stato disponibile in qualsiasi occasione in cui necessitava la sua opera». Lui dice: «Non facciamo chiasso per questa cosa: in fondo che ho fatto? Niente, solo il medico». La storia tragica di Boves, 157 morti dall'8 settembre alla Liberazione e 400 case distrutte dal fuoco, lo ha tra i suoi principali pro- tagonisti. Non vorrebbe parlarne, schivo com'è di pubblicità; sua moglie, Maria Arosio, che gli è stata non solo compagna nella vita ma anche nella professione UtE' il mio braccio destro», dice di lei), deve spronarlo a raccontare. Pacotti sta per compiere 64 anni, l'anno prossimo andrà in pensione. E' nato a Lemie di Torino, ha vissuto dai 17 ai 25 anni a Venaria, si è laureato a Torino e dopo una breve condotta a Villarbasse, nel '38 ha avuto in assegnazione la seconda condotta di Boves, cioè quella che comprende più montagne, la più scomoda. Quattromila abitanti circa da assistere, quattromila persone alle quali Pacotti ha dato il proprio attaccamento e la passione per la medicina e alle quali si è affezionato fino a non sapersene staccare. Tre anni fa, morto il medico della prima condotta, lui avrebbe avuto il diritto di passare nell'altro territorio, quello più comodo, e invece ha rifiutato. «E sa cosa significa? — dice il messo comunale Pellegrino —. Significa dover partire anche di notte, d'inverno, con la neve, e salire con il motorino fino alla borgata Crocette, la più lontana, che dista dieci chilometri da Boves ed è a quota 1500 metri. Quante volte è andato là e in altri luoghi ugualmente difficili e quasi inaccessibili». Di questo medico dicono: «E' orso, ma buono»; oppure: «Ha un carattere ruvido, non nasconde di essere seccato quando sente una chiamata difficile, ma poi, o sole o neve o tormenta o diluvio, parte ». In quella tragica domenica del 19 settembre 1943 quando incominciarono a bruciare le case della Valle Colla, a Castellar, San Giacomo, Rosbella, Rivoira, lui voleva salire lassù, diceva al capitano dei carabinieri: «Devo andare, è la mia gente». L'ufficiale gli ribatteva: «Non sarà matto: ci sono i tedeschi, fanno stra¬ ge». Ci andò, fece quello che gli fu possibile fare per aiutare quegli sventurati. E più tardi, quando anche Boves fu divorata dal fuoco delle feroci SS toccò a lui riconoscere fra i carbonizzati i resti di don Bernardi e di Vassallo, i due che avevano fatto da mediatori tra tedeschi e partigiani per cercare di salvare il paese. «Don Bernardi lo riconobbi da una capsula dentaria che gli avevo messo io, l'altro dagli scarponi» ricorda. Tempi terribili, anche dopo, quando giù in paese si erano installati i tedeschi e lui ogni tanto doveva partire con la valigetta per andare sulle montagne a curare i partigiani feriti o malati. Racconta sua moglie: «I tedeschi venivano da me e mi chiedevano se era andato dai ribelli e io dovevo dire di no cercando di essere convincente. Si passava da una paura all'altra». Dicono in paese: «Forse dobbiamo a lui se Boves non subì una nuova ondata di distruzione e di strage». Nella notte del 31 ottobre '44 tra Boves e Cuneo fu fatto saltare un treno (doveva passare una tradotta tedesca, ma all'ultimo momento fu sostituita con un convoglio passeggeri). Morirono quattordici civili e due soldati tedeschi, un altro tedesco perse una gamba. Racconta il dottor Pacotti: «Vennero a chiamarmi un ufficiale tedesco e un capostazione. Partimmo io e mia moglie. Feci tutto quello che era possibile fare. Il tedesco ferito lo sdraiammo su una porta di ferro di una carrozza e in quattro, mia moglie compresa, con una fatica enorme lo portammo per due chilometri, sino alla strada dove potè essere caricato su un automezzo militare». Dicono in paese: «Quella volta i tedeschi non fecero nessuna rappresaglia proprio perché era stato salvato quel loro soldato ». Dottor Pacotti, qual è il suo ricordo più vivo? «I lanciafiamme che incendiavano le case e quei morti carbonizzati che sembravano bambini tan to erano diventati corti». Tace un momento, poi riprende: «Me ne lasci dire un altro. Una notte, in una baita, riuscii a far nascere un bambino in un parto difficile; subito dopo i familiari della puerpera cercarono di farmelo spari re, volevano soffocarlo perché la donna era una ragazza, non sposata. Me lo sono portato via io, il bambino, avvolto in una coperta. Adesso ha diciassette, anni, ogni volta che lo incontro in paese mi fa piacere vederlo. E ha genitori regolari, perché poi suo padre ha sposato la ragazza». Remo Lugli Andrea Pacotti