Perché i nostri bambini ci chiamano per nome

Perché i nostri bambini ci chiamano per nome RISPONDE GIULIETTA MASINA Perché i nostri bambini ci chiamano per nome « l figli non ti amano più. Per dirle: mia nipote mi chiama con il nome di battesimo, interrompendo, a mio avviso, un rapporto dì consanguineità che si nutre anche di parole. In altri termini: se mia nipote non mi chiama nonna, io non sono per lei la nonna, non le suscito, penso, l'immagine strettamente unita all'espressione». « Non so spiegarmi. Mio figlio, sua figlia lo chiama: Andrea. Fa ridere, ma a me sembra che qualche cosa stia per infrangersi. Papà è una cosa, Andrea un'altra. Con gli anni, che rispetto può avere per suo padre? ». « Andrea è un amico, però per dissensi sempre possibili tra padre e figlia, può apparirle un nemico. Papà, bloccava e indirizzava i pensieri di lei in una direzione. Andrea, molto meno, ne convenga ». Non ho toccato una riga della lettera, che ritengo chiarissima sebbene faticosa. Il tema fu già pretesto per una discussione in casa d'amici; e, come spesso avviene, degenerò fuorivia. Non dimentico, però, la battuta di uno scrittore: « Oggi, / figli non fanno più di tutte le erbe un fascio. L'amore non è stima: la stima, nei figli s'intende, è viceversa sempre amore ». Una definizione sui generis, è relativa e pericolosa. Che cosa, in primo luogo, i figli stimano nei genitori? La comprensione, la tolleranza, l'affetto, oppure il successo nella vita? Un figlio che desidera, e a volte pretende, cose che i genitori non possono dargli, come reagisce? La sua esperienza della vita, così acerba, è in grado di selezionare l'impossibilità dal non voler fare? In questo caso, non è proprio la stima, la parte che paga per il tutto? Che subito frana? Il concetto di stima, sorge da apprezzamenti critici, non affettivi. Gli adolescenti, i bambini, non possiedono le misure necessarie per una valutazione reale; quindi la stima è per loro una manifestazione di piaceri appagati. Voglio dire che io posso stimare perfino chi mi nuoce; un ragazzo molto giovane, mai. Quindi, la curiosa alternativa non mi convince. Mi convincono altre cose. Fino a qualche tempo fa, ritenevamo che l'a¬ more fosse un dovere, un condizionamento naturale. Oggi sappiamo che non è vero, e che i condizionamenti naturali fanno presto a « scondizionarsi » se non sono quotidianamente protetti, aiutati, nutriti. Come, in che modo, in quale dimensione? Tre punti di forza dell'amore cosciente, all'origine di infinite pene affettive; perché non sempre è colpa, se chi quell'amore « vuole » a conservarlo non ci riesce per cause indipendenti dalla propria volontà. Più i figli sono difficili, più i genitori dovrebbero essere ciò che, generalmente, non sono: psicologi, sociologi, psicanalisti, poeti, ricchi di danaro e di tempo libero, scevri di preoccupazioni, non depressi dai problemi della famiglia. La società dei consumi si riflette con rabbia nei giovanissimi, vi precipitano dentro. Il rischio di affogare ci coinvolge tutti. In questo clima via via sempre più pesante, capisco perfettamente la « nonna » che mi ha scritto. D'accordo: non è chiamar nonna la nonna ciò che può salvare una barca che fa acqua; tuttavia, certe parole hanno una carica particolare d'umanità, riflettono, come uno specchio, sentimenti altrimenti intraducibili. Le parole sono strumenti al servizio di stabilite, ancestrali funzioni, commemorative quanto si voglia, ma fortissimamente ancorate nella coscienza. A dirla con franchezza: è più facile dare un dolore a Mariannina, che a mamma. Giulietta Masina

Persone citate: Giulietta Masina