Un "Ballo,, ben eseguito di Massimo Mila

Un "Ballo,, ben eseguito Lo spettacolo che ha inaugurato la stagione del Regio Un "Ballo,, ben eseguito L'opera di Verdi nella interpretazione di Renata Scotto, per la prima volta Amelia, e Gianni Raimondi - La direzione di Gianandrea Gavazzeni, la regìa di Margherita Wallmann Felice inaugurazione della stagione lirica con una buona esecuzione del Ballo in maschera, opera che molto si addice n questo tipo di cerimonia: è uno dei capolavori di Verdi più commoventi e patetici, eppure non presenta il peso né il sudore del coturno tragico, si muove sempre con vivacità festiva e con leggerezza quasi da operetta, in questo simile alla Carmen per l'arte di contrabbandare il dramma entro vesti seducenti. In tal senso, e non certo per riferimenti stilistici di linguaggio musicale, è l'opera più «rossiniana» di Verdi. Tragicissima, tuttavia non e un'opera del «magone». Chi ci va, sa benissimo che verrà il momento della commozione pungente e irresistibile, ma sa anche che si divertirà dal principio alla fine, come se si propagasse in tutta l'opera la frivola leggerezza delle circostanze mondane in cui si consuma il dramma. Unica opera in cui il liberalismo di Verdi si sia acconcialo a dipingere un sovrano «buono», e i cospiratori come una banda di biechi mascalzoni: una specie di tragedia cilena. La grande attesa di questa esecuzione era il debutto di Renata Scotto nella parte di Amelia. L'aspettavano al varco, gli specialisti della vocalità, lei, qualificata soprano lirico, in una parte verdiana di soprano drammatico. Ha vinto la prova con la facilità di un Merckx della voce, dimostrando — se ce ne fosse bisogno — che gli schemi vocali in cui si esercitano la critica e la storiografia vocalistica, sono convenzioni, sempre passibili d'essere superate dal reale valore d'un cantante di pregio, dall'educazione e dallo studio. I cantanti Si capisce che uno che non sia proprio un mentecatto non andrà mai a scritturare Alva per fare Otello o la Sciutti per fare Tosca, ma sono limiti ed esclusioni quasi più psicologici, caratteriali, che reali impossibilità vocali. Prima di tutto le voci degli uomini o delle donne non restano eternamente le stesse, ma subiscono col tempo un'evoluzione biologica: la voce d'un tenore o d'un soprano di quarant'anni non è la stessa che aveva a venti, generalmente si è irrobustita e ispessita. E poi i geni come Verdi, insofferenti delle convenzioni, non hanno la compiacenza di scrivere delle parti interamente da soprano lirico o interamente da soprano drammatico: chi potrebbe contare, nella drammatica parte di Amelia, le volte che invece la voce deve spiegarsi liberamente pura, in pienissimo empito di portamento lirico? Senza arrivare all'estremo di Caruso, che una volta terminò di nascosto l'aria d'un baritono colto in scena da improvvisa afonia, e nessuno se ne accorse, è un fatto che questi schemi e queste classificazioni delle voci valgono finché valgono: i buoni artisti le scavalcano agevolmente. Tutto questo ■ dire che Renata Scotto è parsa un'ottima Amelia, con una voce che non è più condannata solo all'innocenza cristallina di toni alla faglilighi o alla Toti dal Monte, ma ha acquistato spessore e pasta di vibrazione drammatica. E sta benino anche in scena. Si muove con vivacità, e certi gesti — sia merito suo, sin della regia — sono di buon conio teatrale: come quando, nel primo quadro dell'ultimo atto, si avvicina un momento alle spalle di quell'orco di suo marito, quasi per tentare un gesto di tenerezza, poi capisce che non c'è niente da fare, e lascia perdere sconsolata. E qui, nel commovente «Morrò, ma prima in grazia», si produce in un exploit di natura non artistica, ma che pure vuol essere rilevato. Secondo le indicazioni dello spartito, questo lungo pezzo Io dovrebbe cantare «genuflessa»: atteggiamento, oltre che scomodo, alquanto retorico e melodrammatico. D'altra parte non può stare in piedi, perché quando avrà finito, Renalo le dirà: «Alzati». Allora cosa fa, probabilmente d'accordo con la regìa? Si siede, si lascia andare dolcemente per terra. Mica male: un gesto di stanchezza. E' stanca, povera donnina, di difendersi, di scolparsi e di litigare con quel marito furioso, e si siede. Ma bisogna vedere come lo fa, questa donna che non è propriamente una piuma. Si siede, come s'è detto, per terra, ossia su uno scalino che non sarà più alto di dieci o quindici centimetri. E mica ci va giù di schianto, battendo un gran colpo con il sedere. Macché! Va giù a poco a poco, gradualmente, morbida e soffice come una bella gattona, senza appoggiare una mano per terra! Provatevi a ripeterlo a casa vostra, e poi mi direte qualcosa. Roba da «Ginnic Club»! A toul seignettr tout honneur. Resta poco spazio per rilevare la qualità generalmente buona di tutto il cast vocale. Gianni Raimondi non attraversa forse un momento di felicissima forma vocale, lo smalto della voce non ha tutt;: quella luminosità solare che la spensieratezza del personaggio richiede, ma è sempre un fior di cantante, giustissimo negli accenti e nell'espressione, abile nel dialogar cantando, non per la platea ma per l'azione teatrale; misurato e sobrio canta «E' scherzo od è follia» senza la carnevalata delle risatine alla Bonci. E nel finale, quando muore, è maledettamente commovente. Vocalmente prestante, il baritono Mario Zanasi subisce gli aspetti più convenzionali della parte di Renato ed accentua un po' troppo quelle corone che, purtroppo, ci sono nei pirotecnici vocalizzi finali di «Alla vita che t'arride». La vocina di Rosetta Pizzo non è grande ma penetra dappertutto e fora qualsiasi concentrazione sonora, cosa che va benissimo per quei concertati dove infatli tocca a lei il ruolo-guida e deve svettare come un prodigioso zampillo. La cantante snocciola i suoi gorgheggi con sufficiente agilità e l'attrice esalta la parte del paggio Oscar con molta vivacità: anche se non riesce mai, neanche un momento, a farci dimenticare ii suo sesso, quand'c di scena sembra sempre fermamente convinta che la sua parte sia quella principale. E forse è così: Verdi ci si dev'essere divertito e ha fatto sì che le effimere apparizioni del paggetto oscurino sempre per un momento ogni altro personaggio: «les enfants au pouvoir». Molto bene i tre bassi, di colorito vocale giustamente distinto e variegato: Alessandro Cassis nella particina, bellissima, di Silvano marinaio che diventa «uffiziale» per l'intervento di Riccardo in funzione di provvidenza; Francesco Signor e Antonio Zerbini, che riescono a differenziare i congiurati Sani e Tom, evitando il pericolo dell'automatismo marionettistico. Il direttore So Io spettacolo va bene e corre in maniera soddisfacente molto merito va alla direzione di Gavazzeni, alle scene, convenzionali ma grandiose ed efficientissime, di Nicola Benois, alla regìa di Margherita Wallmann, che rinunciando a preziosismi estetizzanti si occupa a spiegare con chiarezza l'azione e a muovere con giudizio personaggi e masse, giocando abilmente certe grandi ombre nell'antro di Ulrica e nel palazzo del Governatore. Gavazzeni è quel direttore che è, in certo senso unico, per la sintesi di due qualità che è difficilissimo trovare riunite in una sola persona: una sopraffina coscienza umanistica, e un mestiere, anzi un mestieraccio, tutto di conquista ed orgogliosamente portato fino ai limiti della sfrontatezza. Qualcuno dei 1800 spettatori che gremivano la sala ha sobbalzato sulla poltrona ed ha trovato eccessive le stangate dei timpani con cui sono stati aggrediti all'inizio del quadro di Ulrica e nella scena della congiura. C'è poco da dire: ci sono nella partitura. Forse, nel primo caso, si potrebbe vedere di temperare con un po' d'umorismo l'intensità demoniaca che Verdi ha attribuito alla parte dell'indovina. 11 Ballo in maschera non è il Freischiltz, e Ulrica non è veramente un prodotto delle forze infer¬ nali: è una poveraccia che tira a campare gabbando il mondo come quelle chiromanti che ogni tanto ci mettono un cartoncino pubblicitario nella cassetta delle lettere. Ma la stamburata terribile, di timpani e grancassa, du ranle la scena dell'estrazione a sorte per stabilire chi sarà eletto ad ammazzare il conte, quella ci vuole: è uno dei momenti più strepitosi del fiammeggiante espressionismo verdiano, che passerà poi neU'Otello. Di lì a certe atroci catastrofi sonore della Lulu di Alban Bcrg, non c'è che un passo; anzi, non c'è neanche quello, ci siamo. Cosa pagherebbe qualche compositore moderno — penso a Shostakovic — per avere inventato quell'impasto di fiati che accom¬ pagna il passaggio del fatale biglietto di mano in mano con una spasmodica tensione (molto bene realizzata anche scenicamente)! Buona la partecipazione del coro, istruito da Tullio Boni. Le eleganti coreografie di Susanna Egri conferiscono la necessaria qualità danzante alla festa dell'ultimo atto, e si estendono fin troppo generosamente anche alla Canzone di Oscar. Bello l'effetto di apertura della sala, in uno svolazzare di coppie vorticose a poco a poco illuminate. Accurata la realizzazione delle scene e dei costumi, che pongono l'azione, come vuole il libretto, in una Boston fine Seicento, ma senza ridicoli riferimenti ad un «profondo Sud» da romanzo di Faulkner, come purtroppo è accaduto talvolta di vedere. Quel che conta è che si tratti d'una corte mondana e brillante, poi America o Svezia non importa niente. Un po' lungo l'intervallo per il cambiamento di scena nel primo e nel terz'atto. Non ha il Regio questo famoso palcoscenico di riserva, dove la seconda scena dovrebbe essere già beli'e pronta e venir spinta avanti al momento buono per magia elettronica? Ma forse queste scene, che sono di un'edizione scaligera d'alquanti anni or sono, non si prestano a tale impiego. Ottimo successo di pubblico, di buon auspicio per le numerose repliche, che nella seconda metà di gennaio vedranno interessanti cambiamenti | nel cast vocale. Massimo Mila Il gruppo degli esecutori alla ribalta, per il festoso congedo dello spettacolo (Moisio)

Luoghi citati: America, Svezia