I Von Karajan col fischietto di Edgarda Ferri

I Von Karajan col fischietto Gli arbitri, chi sono in realtà? I Von Karajan col fischietto Quelli che stan già sulla cima si sentono colti dal medesimo fremito che deve provare Von Karajan, le braccia tese sul podio, pubblico e orchestra che non vedono altro che lui, un attimo prima di iniziar lo spettacolo dinanzi a spettatori di rango, in un teatro di tradizione, con primedonne che già, dietro il sipario, fremono come cavalli pronti ad iniziare una corsa. I più casalinghi sentono invece di avere qualcosa in comune con Escoffier, il gran cuoco capace di esibire ad un pranzo di gala un piatto non solo squisito, ma anche presentato al punto da lare spettacolo. E come Escoffier, le braccia levate al centro di un tavolo bianco, concentrati come mai prima ed altrove, decidono di colpo se aggiungere ancora salsa di funghi, se cancellare quel lieve sapore di burro, se punire il pepe non facendolo neppur figurare. E poi gli altri. Che più banalmente si sentono stretti parenti del vigile che in mezzo alla piazza alza le mani e dirige il caos di automobilisti impiccioni, fischia ed annota, punisce e rifischia. « Perché, sia chiaro, non è comandare che a noi piace tanto. E' dirigere, tenere ordinato », spiega Giulio Campanati, presidente dell'associazione Arbitri. E dice ancora: « Quel fischietto non significa per noi il potere. Però, certamente, il sapere che dalle tue mani, da un fischio che fai, da un'occhiata che lanci, dipendono un pallone e ventidue uomini dentro uno stadio, dà un fremito irripetibile. L'udire una folla che improvvisamente zittisce per un'alzata di mano, ed attende impietrita la tua decisione, è il vero, impareggiabile lusso che l'arbitro si concede nel corso di una partita. Perché lui non ha altro, non gode di altro. L'arbitro è li per punire, mai per premiare. Quindi, alla fine, che non si aspetti l'applauso. Gli va già bene se esce di campo senza auguri di corna in più sulla testa, o senza scorta dei carabinieri ». E' un cinquantenne conservato benissimo, elegante e brillante, dirigente a Milano in una industria in ceramiche, e in questo prosegue il lavoro che fu già di suo padre. « Come si diventa arbitri? Ci si arriva per moltissime vie. lo per esempio, studiavo poco e giocavo a pallone. Mio padre temeva che sudassi troppo, che il pallone mi facesse male. Cosicché un amico di casa, mio ex maestro, insinua in noi tutti l'idea dell'arbitraggio. L'idea mi piaceva. Ero un tifoso, quando giocavo. Avevo i miei idoli che erano Frossi, Piola e Meazza. Di colpo li ho visti soltanto come dietro un cristallo. Lontani, remoti. Non più uomini, non più personaggi. Macchine, invece, che appena sbagliavano mi facevano prender di colpo la decisione su come punirli. In realtà, non sarei mai giunto a punire loro. Cominciai, come tutti, ad arbitrare nel Campetto di paese dove l'unica autorità era il carabiniere di guardia ». Dall'oratorio Partiti dunque dal campo dell'oratorio, per tutti c'è però fin da allora il gran faro, la massima aspirazione. Arrivare alla gara internazionale, dirigere le grandi squadre straniere. «Personalmente — dice Campanati — ho avuto fortuna. Sono stato sempre il più giovane arbitro di ogni categoria. A ventinove anni la prima partita in A, a trentadue la prima internazionale: Ungheria-Jugoslavia, vittoria degli ungheresi per 4 a 0. L'Ungheria ha avuto nella mia vita di arbitro ritorni importanti. Dieci anni dopo, vinse contro la Svizzera in una partita che fu l'ultima della mia carriera. Intanto, Puskas e gli altri della Honved erano venuti a Milano durante la rivoluzione di Praga. Giocarono a San Siro contro il Milan. Prima della parti- ta, profughi del loro Paese invasero il campo e portarono fasci di fiori. Faticai a controllare una commozione improvvisa, la prima che provavo in mezzo a uno stadio ». Dunque, anche l'arbitro è un uomo? « Per un attimo, ed è il massimo che gli venga concesso Cinque minuti dopo, io già fischiavo un rigore contro la Honved ». E' un signore assai conciliante, con un bel sorriso di marca lombarda, conversatore instancabile e ben preparato. Ma, quando arbitrava, non dev'essere stato né dolce né generoso. La Bibbia « Le regole del gioco da rispettare sono diciassette. Su ogni regola sono stati scritti volumi, spesi miliardi di parole ed esempi. Ma alla fine dei conti, a te resta soltanto un secondo per decidere che cosa fare. Gira e rigira, la cosa migliore è quella di non sgarrare dai diciassette punti della nostra " Bibbia ". C'è infine un segreto che permette all'arbitro di portar fino in fondo la partita senza contestazioni, che è poi ciò che lui deve fare. Il segreto è la severità. Tu punisci una volta, due volte, tre volte. La quarta non ne hai più bisogno. Il giocatore ha già imparato che tu, certi sgarri, non li lasci passare ». Insomma, è l'ammaestramento del gatto: gli metti il muso nella sua pipi finché non ha imparato che sul tappeto del salotto non si deve fare. « Ma come agire altrimenti? Sono ventidue giovanotti, e non tutti di carattere facile, non tutti coi nervi robusti. La disciplina è tutto, le regole sono infrangibili ». Come accade che un arbitro sbagli? « Ma perché è un uomo, non una macchina. Ovvio che non lo si può mettere al confronto della cinepresa che poi viene usata in moviola per contestargli l'arbitrio. Dov'era la cinepresa? Sulla fronte dell'arbitro? Perché, se proprio non era sulla fronte dell'arbitro, ha visto l'azione da un altro lato del campo. L'arbitro dà il suo giudizio da quello che ha visto, e lui ha visto dalla sua posizione. Perché la partita di calcio ha questo di bello, di elettrizzante. Centomila spettatori allo stadio? Centomila punti di vista diversi, centomila partite diverse ». Ma della pirandelliana commedia, soltanto l'omino nero può trasformarsi di colpo e apparire, il dito puntato verso un'uscita del campo, impettito ed inappellabile, l'angelo punitore che caccia Adamo dal Paradiso terrestre, il carabiniere che trascina Pinocchio in prigione. « Per gli altri è spettacolo. Per me, sono soltanto e rigorosamente diciassette regole da rispettare ». Dunque, come ha da essere un arbitro? « Ce ne sono "di tipi diversi, — dice Campanati allargando le dita della mano destra —. C'è l'insensibile e c'è quello sensibile, il vulnerabile e l'impressionabile, il rozzo e l'esteta. Ovviamente son caratteristiche così poco spiccate che uno, se appena ne ha un pizzico in più, arbitro non ci diventa ». Edgarda Ferri Giulio Campanati visto da Franco Bruna

Luoghi citati: Jugoslavia, Milano, Praga, Svizzera, Ungheria