Boss malati, testi senza memoria al processo per la guerra mafiosa di Piero Cerati

Boss malati, testi senza memoria al processo per la guerra mafiosa Il dibattimento per i sanguinosi scontri fra le cosche Boss malati, testi senza memoria al processo per la guerra mafiosa Gerlando Alberti e Pietro Torretta hanno comunicato al giudice di essere pieni di acciacchi e di non potersi presentare ■ Nel processo di primo grado il primo fu assolto per insufficienza di prove; il secondo venne condannato a 27 anni - Il caso del teste che dopo avere ritrattato disse: "Eccellenza, io da piccolo ho fatto la meningite" (Dal nostro inviato speciale) Catanzaro, 21 novembre. Gerlando Alberti e Pietro Torretta, due presunti «boss» della mafia, non compariranno davanti ai giudici di Catanzaro nel processo per la guerra tra le «cosche» siciliane. In un primo tempo avevano fatto sapere di non potersi muovere per malattia (Alberti è all'Ucciardone, afflitto da calcoli renali; Torretta in soggiorno obbligato a Massa Lombarda, pieno di acciacchi), ora hanno comunicato la definitiva rinuncia ad assistere al dibattimento. Gerlando Alberti era stato assolto in prima istanza per insufficienza di prove (a giorni, a Palermo, sarà chiamato al processo sulla nuova mafia); Pietro Torretta era stato, invece, condannato a 27 anni di carcere. Il procuratore generale, dottor Florio, ha protestato contro la decisione dei due imputati: « Devo tutelare i futuri sviluppi del procedimento, ha detto, soprattutto Pietro Torretta è una figura preminente, che giganteggia in questa vicenda e dovrebbe essere a disposizione della pubblica accusa e della corte. Io apprendo soltanto ora che ha deciso di non venire a Catanzaro». Il dott. Florio ha chiesto che le sue dichiarazioni venissero messe a verbale. Pietro Torretta, presunto «boss» della borgata palermitana Uditore, è coinvolto nella guerra tra le cosche nel periodo 1959 - 1960. A lui, il giudice Molinari ha dedicato parte della sua relazione sugli avvenimenti accaduti in quel periodo in Sicilia e in particolare nel capoluogo. Torretta, nel dossier letto in aula, compare dopo la misteriosa fine di Salvatore La Barbera (17 gennaio 1963): la sua auto fu trovata bruciata, (di lui non si seppe più nulla), la sparatoria contro la pescheria «Impera» di Palermo (attribuita a Salvatore Greco contro Angelo La Barbera, ma i testi ritrattarono le dichiarazioni) e il ferimento dello stesso La Barbera a Milano in un agguato: «Un episodio, dissero i giudici, che va inserito nella lotta tra La Barbera e Greco». Gli imputati coinvolti in queste vicende si dicono però innocenti: a loro carico vi sarebbero soltanto voci confidenziali, sospetti, frutto di immaginazione. Il 18 giugno 1963 accadde l'episodio che portò Torretta davanti alla corte. Nell'alloggio del presunto «boss» vi fu un «regolamento» (i killers usarono almeno quattro armi e spararono 12 colpi) in cui morirono Pietro Garofalo e Girolamo Conigliaro. Il 9 febbraio 1964 Torretta veniva arrestato; era ferito a un ginocchio con ritenzione di proiettile: quando glielo estrassero, si accertò che era dello stesso calibro di quello che aveva colpito Garofalo. Vi sono due versioni di quanto accadde in casa Torretta. La prima è degli inquirenti e dei testimoni, che poi ritrattarono; la seconda è dell'imputato. Ecco la prima. Il 18 giugno, dall'alloggio di via Lo Monaco Ciaccio, alle 19,30, escono, come a un ordine, undici persone: la moglie di Torretta, una cognata, la figlia con le compagne di studi, il figlio con gli amici (tutti, poi, negarono questa specie di «fuga»; venne anche trovata una camicia stirata a metà, ma la signora Torretta spiegò: «Era troppo asciutta, non conti¬ nuai il lavoro»). Alle venti arriva Pietro Torretta. Poco dopo entrano cinque persone e avviene la sparatoria. Un teste vede un uomo calarsi dal balcone, tre uscire dal portone di corsa, con le pistole in pugno; uno è Torretta: non zoppica, quindi si sarebbe sparato in seguito, per avere un alibi. I testimoni, però, al processo ritrattarono e uno, per accreditare la tesi dell'immaginazione malata, disse al giudice: «Eccellenza, io da piccolo ho fatto la meningite». Versione di Torretta. Il 19 giugno riceve una telefonata da Conigliaro, che vuole trattare, l'indomani, una partita di agrumi. Poco dopo, Torretta esce, si reca da conoscenti e verso le 20 torna a casa. Arrivano, all'improvviso, Conigliaro e Garofalo. Li fa accomodare in salotto. Suonano alla porta, Torretta apre e irrompono cinque o sei sconosciuti che uccidono Conigliaro e Garofalo, poi sparano al Torretta (il colpo al ginocchio). I giudici non ritennero vero il racconto del presunto «boss» e lo condannarono (22 anni per omicidio continuato, gli altri cinque riguardano l'associazione per delinquere). La difesa sostiene ora che manca una precisa ricostruzione dell'episodio e non risulta che l'imputato abbia partecipato alla sparatoria. Stamane, il giudice Molinari si è occupato dei reati minori, come le estorsioni di cui sono accusati i fratelli Vincenzo e Tommaso Buscetta (quest'ultimo in aula, in stato di detenzione), Angelo La Barbera e Rosario Mancino. Essi, secondo le accuse, avrebbero acquistato alloggi sotto costo grazie alle «pressioni» sui costruttori. Ma anche in questo caso i testi d'accusa ritrattarono le dichiarazioni fatte agli inquirenti. La difesa, poi, li ritiene inattendibili, come l'imprenditore Annaloro, che avrebbe accusato i presunti «boss» per «giustificare la bancarotta dovuta invece alla sua incapacità». Quanto alle «cosche» della nuova mafia, il giudice Molinari ha ricordato che la sentenza parla di quattro «organizzazioni»: per l'edilizia e trasporti, per le attività varie, per i cantieri navali e per il contrabbando, ma «non vi possono certo essere atti costitutivi di queste gang, quinI di le prove vanno desunte da I elementi indiretti», come i rapporti e i viaggi comuni di certi personaggi in località italiane ed estere, le agende trovate in tasca ad alcune vittime e complici della mafia (Di Pisa e Manzella, ad esempio). In base a questi elementi, il p.g., in corte d'assise, ritenne di poter definire Rosario Mancino «trasvolatore a fianco di Angelo La Barbera sulla via della droga» (Mancino si fece espellere dal Messico, dagli Stati Uniti, dal Canada e dalla Libia). Il giudice Molinari ha anche fatto riferimento alla soppressione di Serafina Battaglia, la vedova della mafia, la prima donna che ruppe il muro di omertà attorno alle «cosche», e alla quale vennero uccisi il marito, Stefano Reale, e il figlio Toti. Serafina disse di avere appreso che le «riunioni» mafiose avvenivano in garages, bar, negozi, magazzini (ne indicò alcuni) e, tra gli altri, fece i nomi di Pietro Torretta («era lui che doveva dare il consenso per uccidere mio figlio») e Salvatore Greco. La difesa ora sostiene che le deposizioni dei testi sono I «slegate», addirittura uno j (Francesco Annetta) «è un ; menomato cerebrale, ammalato»; quanto a Serafina Battaglia, essa «ha spinto il figlio a vendicare suo padre» (e il giovane fu ucciso), «odia la nuora» (il padrino di una delle nipoti, Stefania, è Pietro Torretta), ed è smentita, dice sempre la difesa, da coloro che essa cita come suoi informatori. I nomi trovati nelle agende non farebbero testo perché, sostengono i legali, vi comparivano anche persone che la corte non ha ccnsiderato mafiose; le sedi delle «riunioni», poi, sono tutte «ira locali stretti, non adatti a convegni» che si ritengano importanti; parecchi imputati «sono indigenti», quindi è falso lo sfruttamento e l'illecito edilizio, che li avrebbe dovuti arricchire. Piero Cerati Catanzaro. Stella)