Perché gli italiani fanno fatica a inserirsi nella società tedesca di Tito Sansa

Perché gli italiani fanno fatica a inserirsi nella società tedesca Viaggio tra gli emigrati nella Repubblica federale Perché gli italiani fanno fatica a inserirsi nella società tedesca Il problema più urgente è quello delle scuole: se i ragazzi studiano la lingua madre restano stranieri, se imparano il tedesco avranno un diffìcile ritorno in patria - Occorrono corsi bilingui, insegnanti preparati a questo scopo, un atteggiamento più aperto delle famiglie, maggiori interventi da parte del governo - L'azione delle autorità italiane (Dal nostro inviato speciale) Francoforte, 16 novembre. Nel 1969 a Magonza il ministero della Cultura dell'Assia decise di cercare tra i bambini stranieri gli specialisti degli Anni Ottanta. Lanciò un bando, offrendo 150 corsi gratuiti di preparazione in collegi tedeschi a bambini di « lavoratori ospiti » fra i 9 e i 10 anni. Per la durata di un anno essi sarebbero stati non soltanto nutriti e istruiti a spese del « Land », ma anche alle loro famiglie sarebbe stato pagato un «premio» mensile di 300 marchi (circa 70 mila lire). Un migliaio di famiglie si presentarono, ma tra esse neppure una famiglia italiana. Tutti i posti andarono a jugoslavi, greci, turchi e spagnoli. E oggi quei ragazzi sanno perfettamente il tedesco, frequentano scuole professionali, tra un anno o due saranno specialisti. I nostri decenni di quattro anni fa — invece — tenuti a casa perché « poverini, sono troppo piccini, hanno bisogno della mamma », continuano a essere degli sbandati. Il medesimo rifiuto degli ìtaliani a inserirsi nella società tedesca e a sfruttare le occasioni (a dire il vero non molto numerose) si è ripetuto questa primavera, quando il Comune di Francoforte cercò 60 dattilografe straniere bilingui, senza precisare quale lingua dovessero conoscere. Arrivarono ragazze dall'Anatolia e dalle Asturie, neppure una italiana, della pur numerosa colonia di nostri connazionali. « Non sapevamo » si giustificano alcune; i familiari di altre dicono con rassegnazione orientale: «Tanto non le avrebbero prese, tutti i posti buoni sono per i tedeschi ». Gli altri La tendenza a lamentarsi, a protestare contro le autorità tedesche e quelle italiane è assai diffusa. Raramente i nostri emigrati fanno un esame di coscienza e ammettono che lavoratori stranieri di altri Paesi sono più attenti e pronti, a costo di sacrifici familiari, a gettare le basi per un futuro migliore, ad abbandonare le nostalgie per la propria terra e per il proprio Paese. Greci e turchi, organizzati politicamente dai regimi patrii, naturalmente hanno la vita più facile. Atene e Ankara fanno una politica scolastica nazionalista, non soltanto inviano in Germania maestri indottrinati e fedeli (cosa inimmaginabile per una libera democrazia come quella italiana), ma anche libri di testo, dischi e materiale didattico. E, mentre da una parte favoriscono l'inserimento dei bambini nelle scuole tedesche (perché sanno che la conoscenza della lingua è la piattaforma per il progresso nella società tedesca), dall'altra parte spendono fior di milioni per l'assistenza e per i doposcuola, per mantenere i contatti di lingua e di cultura (e politici) con la patria. Ma lasciamo questi regimi totalitari, che hanno imparato dalle scuole fasciste all'estero. Prendiamo i jugoslavi. Per loro non esistono problemi di indottrinamento politi- co dei fanciulli (figli di co-munisti e figli di fuorusciti si frequentano) ma soltanto problemi di educazione. E, con l'avveduto incoraggiamento del governo di Belgrado, lo hanno risolto senza difficoltà. « Il serbo-croato lo si parla a casa — mi dice Milan Obradovic, autista di Francoforte, da cinque anni in Germania, il quale loda il sistema scolastico francese —. Chi vuol rimanere in Francia va alla scuola francese: altrimenti torna in patria ». E mi rimprovera: « Proprio voi italiani, che avete la fortuna di far parte del Mercato comune europeo, vi opponete all'inserimento dei vostri figli nella scuola tedesca ». Non è sempre cosi. Vi sono gruppi di genitori italiani che, constatate le difficoltà di ottenere insegnanti italiani, hanno deciso di « immergere » i propri figlioli nell'ambiente tedesco. A Bichenbach, presso Darmstadt — per esempio — ottanta famiglie italiane sì sono rivolte alle autorità scolastiche chiedendo « l'innesto totale » dei loro bambini nella società tedesca. L'operazione è riuscita, i fanciulli non sanno forse chi era Garibaldi, ma parlano perfettamente il tedesco e abbastanza bene l'italiano. Sarà necessario per loro istituire dei doposcuola per mantenere viva la Ititgua materna. L'esempio di Bichenbach — anche se esiste il timore che col passare del tempo si arrivi a una frattura fra genitori e figli, i quali frequentano amici tedeschi — merita forse di essere seguito. Le autorità italiane vi stanno meditando, quelle tedesche un po' meno. Nel Mec Si ha l'impressione, osservando il comportamento di alcuni ministeri della cultura tedeschi, che essi non abbiano un interesse sincero a favorire l'integrazione delle nuove generazioni di stranieri e, soprattutto, a favorire la loro evoluzione. Soprattutto quella degli italiani, i quali — grazie ai regolamenti della 1 Comunità europea, che per mettono la libera circolazione nella Cee — potrebbero essere indotti a rimanere per sempre e condurre alla temuta « Entfremdung » ila stranie rizzazione ) del Paese. Per i lavoratori dei Paesi fuori del « Mec » il problema non si pone: in caso di recessione economica servono da valvola di sicurezza per i posti di lavoro e possorio essere rimpatriati. Ma per gli italìa- j ni ciò non vale: essi possono \ essere indotti a rimanere volontariamente soltanto se si adattano ai lavori più disagiati, o costretti a partire se obbligati a lavori che superino il limite della tollerabilità. Pertanto, visto che non è possibile vietrgli la permanenza, tanto vale mantenerli a un basso livello di istruzione scolastica e professionale. Difficoltà non ve ne sono: che molti italiani sono i migliori alleati di questa politica dell'ignoranza, si adattano, perdono un autobus dopo l'altro. All'avanguardia tra coloro che si fanno strada sono i balcanici e i turchi. Gli italiani che frequentano il ginnasio 0 la «Realschule» si contano sulla punta delle dita, E' triste doverlo ammettere, ma è vero: l'Italia, che sembra lieta di non dover occuparsi dei figli dei nostri lavoratori emigrati, fa molto poco per loro. La Germania, che basa il proprio miracolo economico sul lavoro dei loro genitori, dà l'impressione di volersene sbarazzare al più presto. Basti l'esempio della Baviera, la quale (negando, scandalizzata, come tutti i «Laender», di volere la rotazione della manodopera straniera) l'ha praticamente adottata con la propria politica scolastica. Con la giustificazione che i bimbi stranieri «possono essere istruiti soltanto nella lingua in cui hanno cominciato a pensare», e che «l'integrazione totale nella scuola tedesca saboterebbe il reinserimento nella scuola in patria», il governo cristiano-sociale di Monaco ha deciso — benedet- 1 to dai genitori stranieri miopi — di istituire scuole internazionali per i forestieri. In tal modo gli stranieri rimarrebbero stranieri per sempre, l'operazione di «rigetto» avverrebbe automaticamente. Tre vie E' ciò che vogliono le numerose associazioni delle famiglie italiane in Germania, che sognano la casetta, la bot- tega o la barca in patria. E per evitare la «germanizzazio- ne» dei propri figlioli, molti genitori mandano i ragazzi o al collegio italiano di Stommelen (presso Colonia) o si dissanguano per mantenerli in una scuola media o in collegio in Italia. Tre sono le soluzioni che si presentano per l'istruzione: la scuola italiana in Germania, cioè il mancato inserimento (e sono guai per chi resta in Germania); la scuola tedesca, cioè la germanizzazione (e sono guai per chi tornerà in Italia); la scuola bilingue (che va bene sia per chi resta sia per chi torna, e rende più europei). E' per questa soluzione che si battono i consoli più avveduti, a costo di contumelie da parte delle associazioni delle famiglie, appoggiate da organizzazioni politiche nazionaliste. Dice don Pier Paolo Petrini, direttore della scuola italiana di Offenbach (640 allievi, sette nuove aule inaugurate ai primi di novembre) che per i nostri bambini «ci vuole una scuola apposta». Se il governo italiano fosse disposto a varare una politica per le scuole all'estero, «probabilmente i tedeschi avrebbero più rispetto per noi e contribuirebbero finanziariamente in misura maggiore». «Per esempio — dice il battagliero sacerdote — in Italia vi sono migliaia di maestri disoccupati, in Germania mancano migliaia di insegnanti. Ma non è possibile che ci si metta d'accordo, che i nostri disoccupati vengano mandati per qualche mese a imparare il tedesco in uno dei tanti "Goethe Institut" e poi inviati in Germania?». Qualcosa comincia già a muoversi, dopo tanti anni di proteste, mentre la situazione peggiora. A Roma il ministero delle Finanze, al quale il ministero degli Esteri aveva chiesto 8 miliardi di lire per le scuole all'estero, si è finalmente deciso ad allargare la manica: lo stanziamento di 1,8 miliardi nel 1973 è stato portato a 2,4 miliardi. E a Merano sono già stati tenuti quattro corsi di insegnamento della lìngua tedesca per giovani maestri disposti a trasferirsi in Germania. Un primo gruppo è già arrivato: consoli, famiglie e allievi sono soddisfatti. Ma molto ancora è da fare. Tito Sansa Francoforte. Protesta sotto il consolato italiano per la mancanza di scuole bilingui

Persone citate: Goethe, Greci, Land, Milan Obradovic, Offenbach, Pier Paolo Petrini