Il primo astrattista italiano di Marziano Bernardi

Il primo astrattista italiano La mostra di Mauro Reggiani alla Galleria civica torinese Il primo astrattista italiano Un'ampia rassegna dedicata al pittore modenese, che nel 1934 "lanciò" l'arte astratta in Italia - Oggi il fenomeno è "storicizzato", e si può guardare alla sua opera cercandovi soltanto i valori pittorici Con la vasta mostra di Mauro Reggiani che s'inaugura oggi alle 18 nella Galleria civica d'arte moderna di Torino risaliamo alle origini dell'astrattismo artistico in Italia, giusti quarantanni fa: perché Reggiani, nato a Nonantola presso Modena nel 1897, subito dopo l'« apertura» nel 1933 di Atanasio Soldati al Milione di Milano («un gruppo di lavori in cui gli elementi figurativi erano estremamente ridotti e stilizzati », scrisse Paolo Fossati in L'immagine sospesa, Torino, Einaudi, 1971), fu l'anno seguente, con Bogliardi e Ghiringhelli, l'eroe, sempre al Milione, di quella che è « comunemente conosciuta come la prima mostra astratta in Italia ». Gli 44* • ismi, Una bomba. E l'eco dello scoppio si ripercosse immediatamente a Torino, nello studio di Casorati e Paulucci in via Barolo, dove apparvero (1935) Reggiani, Bogliardi, Ghiringhelli, Licini, Melotti, Fontana, Soldati, Veronesi, D'Errico; mentre Carlo Belli pubblicava il programmatico libro Kn, e la seconda Quadriennale romana dedicava una sala a Reggiani, Bogliardi, Ghiringhelli, Magnelli, Soldati, Licini, De Amicis. Cominciava anche da noi, con un ritardo d'oltre un ventennio sulle prime esperienze europee, la grande avventura dell'astrattismo; e si verificava nelle arti del visibile la « spaccatura » forse non tanto artistica quanto ideologica, e per qualche punto delle sue franose pareti persino politica, che avrebbe fatto scorrere fiumi d'inchiostro, accese discussioni e non finire, fomentato entusiasmi e condanne tra le parti avverse, addirittura risse e scontri fisici: come al tempo del primo futurismo. Il fenomeno è quindi ormai «storicizzato» anche nelle persone dei suoi superstiti protagonisti (Reggiani ha settantasei anni); e se il tentativo critico di fondere in unità poetica i due inconciliabili opposti dei così detti « figurativo » e « non-figurativo », sì che con ingegnoso gioco dialettico si giunse alla formula dell'« Astratto-Concreto », non riesce neppure oggi a convinzioni unanimi, più nessuno nega una loro possibile convivenza estetica a parità di livello qualitativo e, appunto, di estetico godimento: proprio come due superpotenze che abbiano rinunziato a sopraffarsi, pena il proprio annientamento. La risalita, dunque, all'astrattismo geometrico degli Anni Trenta (si leggeva nella dichiarazione degli espositori alla mostra torinese del '35: « La geometria, che è sempre stata la più alta aspirazione umana, è la chiave della nostra modernità... è il comune denominatore di tutta la civiltà moderna»; che è uno dei tanti assiomi, dei tanti ivse dixit per teorizzare perentoriamente questa o quella ricerca dell'arte contemporanea) non può essere che « storica », perché davvero non ci sembra di avvertire nelle nuove leve artistiche un'ansia morale, una inderogabile esigenza concettuale di ripercorrere fattivamente quelle correnti che Alberto Sartoris (Mauro Reggiani, Milano, « All'insegna del pesce d'oro », 1967) ha chiamato « irresistibili generatrici dell'arte costruita ». E avendole egli così enumerate: futurismo, cubismo, suprematismo, costruttivismo, neoplasticismo, elementarismo, simultaneismo, raggismo, vorticismo, sincronismo, orfismo, purismo, inoggettivismo ecc., correnti :he « si volsero tenacemente alla riscoperta dei valori strutturali, fondamentali, permanenti ed universali dell'arte», vien fatto di meditare su questo immane travaglio intellettuale dalla nascita dell'astrattismo in poi, per trovare una «forma». Meditazione che diventa stupore considerando la miracolosa naturalezza (naturalezza deriva da Natura...) con cui un Nicola Pisano e un Giotto, sei-sette secoli fa, avevano trovato una loro « forma » altrettanto (ma solo altrettanto?) fondamentale, permanente, universale nei confronti dei valori strutturali dell'arte. Vero è che i padri del primo astrattismo italiano, rifacendosi a Cézanne — ma interpretando a modo loro la celebre « lezione » — polemicamente auspicavano una pittura concepita « come pittura, cioè totalmente sganciata da ogni elemento perturbatore e improprio, quale la rappresentazione narrativa e fuori di qualunque ordine estetico che aveva fino allora tiranneggiato ogni movimento estetico ». Che è come dire che dalla Camera degli sposi, per capirne l'altezza artistica, bisogna scacciarne gli elementi perturbatori e impropri introdotti da Man- tegna con la « rappresentazione narrativa» di personaggi in carne ed ossa nei quali si specchia intero un costume e intera una civiltà, cioè la vita che può variare da epoca ad epoca, ma che è pur sempre fatta da creature umane. E' movendo da questi precedenti che — a parer nostro — va visitata la grandiosa e istruttiva mostra di Reggiani, curata e dotata di un completissimo catalogo da Enrico Crispolti. Il quale ammette anche lui, nel saggio introduttivo, la « storicità » di questo pittore da quarant'anni presente, creativamente, « in un filone fondamentale della nostra cultura artistica »: ma, segnalandone la consapevole operosità ancor giovanile, la progressione della ricerca nei lavori più recenti, lo pone su un piano di attualità, ed anzi di esempio, rispetto gli sviluppi ultimi dell'astrattismo italiano. Né poteva esser diverso il punto di vista di Crispolti, ferrato teorico del futurismo, dell'astrattismo e di parecchi altri ismi del nostro secolo. Se non che a proposito della teoretica di codesti movimenti, che ha generato montagne di carta stampata, incuriosisce il contrasto tra il labirintico, complicatissimo, spesso quasi ermetico concettualismo di cui grondano, con capillari innumeri infiltrazioni nei meandri delle intenzionalità artistiche, le pagine dei citati Fossati e Sartoris, e di Crispolti stesso, e la semplicità, quasi la bonomia del discorso di Reggiani quando parla della sua opera, a tu per tu col visitatore davanti ai quadri. Talché ancora una volta ci viene inmente lo sbalordimento del buon Arturo Tosi (credo di averlo già raccontato) quando lesse la monografia dedicatagli da Argan nel 1942: « Io non credevo di aver pensato, dipingendo, tante cose». Bel gioco Il lavoro di Reggiani, chiuso verso il '32 il decennio del suo « figurativismo » (ed è un peccato che qui ne manchi la documentazione per controllare quanto asserisce Crispolti circa un «interesse di dislocazione spaziale, anziché di svolgimento narrativo») è sempre proceduto per cicli, per gruppi di temi plastici, coloristici, spaziali, costantemente nel campo, s'intende, della composizione astratta, prevalentemente geometrica, ma ripresi magari a distanza d'anni con intuizione gioiosa di nuove modulazioni formali e cromatiche dei temi stessi, ed insieme con straordinaria attenzione e pazienza per raggiungere un'estrema limpidezza dell'immagine. Ciò è già evidente nei non molti dipinti salvati dal bombardamento dello studio dell'artista e della galleria del Milione nel 1943 (ne perirono circa 200 oli, tempere, disegni e stampe), ed è confermato nei periodi successivi. anche quando — come negli Anni Cinquanta — le forme accennano a sciogliere le loro ortogonali rigidezze, si flettono, s'incurvano, s'incrociano, si fanno talora aguzze come lame ed uncinate come ganci, con bellissimi effetti puramente ottici. E più tardi, in quest'ultimo tempo, si succedono moduli di gran lunga più aperti ed aerati che si direbbero dovuti a ripensamenti di Mondrian: nei quali all'imperioso volume plastico d'una forma geometricamente calibrata subentra una quadrettatura dello spazio, una prevalenza di vuote superfici colorate, anch'esse di eccezionale suggestione visiva. E' questo, secondo noi, il punto focale dell'arte di Reggiani; e non vorremmo che un personale giudizio, forse errato, tornasse negativo delle qualità di un pittore di così profonde convinzioni, di tanta coerenza immaginativa e stilistica. Non crediamo che l'imperterrito esprit de geo¬ metrie di Reggiani — come degli altri suoi compagni di fede — corrisponda al risultato certo d'un rinnovamento del mondo e dell'uomo. Non ci si venga a parlare, come ha fatto Argan, di configurazione geometrica della realtà, e tanto meno di immagina-1 zione laica. Che c'entra? Gli astrattisti del '34 hanno esaltato Piero della Francesca « senza conoscere la leggenda della Santa Croce ». Ma Piero la conosceva, questa è la differenza; ed il suo genio non fu di aver trovato un « ordine » o un « metro », ma di aver trasfuso negli attori di quella leggenda la coscienza della dignità dell'uomo, cioè la sua coscienza. L'esprit de geometrie di Reggiani è invece un ammirevole gioco pittorico; e non si fraintenda con frivolezza pittorica: è studio e — a suo modo — serio successo. Gioco che ha per esito una a volte irresistibile seduzione dell'occhio. Ma anche in que- sti casi l'equivoco, la sproporzione dell'indagine analitica della critica con la realtà delle opere, appare lampante. Perché non insistere piuttosto sulle magnifiche qualità coloristiche di Reggiani? Perché non proclamarlo uno dei più raffinati coloristi italiani del nostro secolo? Quanti altri pittori sarebbero stati capaci di trovare, all'età di settantatré anni, gli squisiti accordi tra il rosa pallido, il rosso, il verde, il nero e il bianco della Composizione numero 15, in catalogo numero 106? Ma imporre sull'arte di Reggiani e degli altri astrattisti geometrici e non geometrici il castello filosofico dai cui spalti tanti critici valenti intravidero e intravedono le vie dell'arte futura, è come caricare sulle spalle di un artista del « comportamento » (vedi ultima Biennale veneziana) la Scuola di Atene di Raffaello. Marziano Bernardi