Tito ed i sovietici di Ferdinando Vegas

Tito ed i sovietici I colloqui del capo jugoslavo a Kiev Tito ed i sovietici La lunga serie di contrasti e di riavvicinamenti - La "scomunica" del '48 e le crisi per i fatti dell'Ungheria nel '56 e della Cecoslovacchia nel 1968 - Il primo incontro tra Tito e Breznev è avvenuto undici anni fa Ancora un incontro fra Tito e Breznev, a undici anni di distanza dal primo. Allora, nel settembre 1962, Kruscev era al potere nell'Unione Sovietica e aveva inviato a Belgrado Breznev, titolare della carica più che altro rappresentativa e onorifica di capo dello Stato, per restaurare la cooperazione jugo-sovietica, gravemente compromessa dagli avvenimenti d'Ungheria del 1956. Il riavvicinamento, consolidato pochi mesi dopo (dicembre '62) da una visita di Tito a Mosca, riuscì e durò alcuni anni. Fu messo poi in crisi dall'occupazione so-, ietica della Cecoslovacchia, nell'agosto del '68. Infine, superata anche questa prova, si è di nuovo affermato, come dimostra la stessa frequenza degli incontri fra Tito e Breznev nell'ultimo paio d'anni: visita di Breznev a Belgrado nel settembre 71, viaggio di Tito a Mosca nel giugno '72 e adesso incontro non ufficiale a Kiev. I rapporti con l'Unione Sovietica costituiscono dunque il contrappunto costante della storia della Jugoslavia comunista e della stessa storia personale di Tito, e ben da prima dei tempi di Breznev e di Kruscev anzi — per quanto riguarda Tito — prima ancora di Stalin. Nel 1915 il giovane croato Josip Broz, nato nel maggio 1892, militare dell'esercito austro-ungarico, fu fatto prigioniero sul fronte russo; era già socialista, la Rivoluzione d'ottobre e i successivi avvenimenti (rimase in Russia sino al 1920, prestando anche servizio nella Guardia Rossa durante la guerra civile) lo fecero diventare comunista. In Russia, divenuta Unione Sovietica, Broz, divenuto Tito, doveva tornare nel 1934 come funzionario del Comintern, avendo intanto dato prova della sua capacità di dirigente comunista in patria, attraverso le lotte politiche e sindacali, l'attività clandestina, cinque anni di prigione. Passando il confine sovietico credeva di entrare nel Paese dove «tutti i sogni per i quali stavamo combattendo erano stati realizzati». Non passò molto che, assistendo alle «purghe», agli intrighi, allo scatenarsi del peggiore stalinismo, dovette ammettere, come dirà poi: «Tutto il mio essere si ribellava contro quello che vedevo a Mosca». Tuttavia la sua fede di comunista non venne meno, cercò di darsi una ragione di quanto accadeva: in fondo, l'Unione Sovietica era sempre l'unico Stato «socialista», e il baluardo contro le sempre più evidenti mire aggressive del nazifascismo. Per «non far nulla che danneggiasse l'ulteriore sviluppo del movimento internazionale», bisognava quindi saper molto sopportare: anche l'intromissione del Comintern nella gestione del partito comunista jugoslavo, che per poco non fu sciolto, come accadde al partito polacco. A ogni modo, il Comitato centrale fu totalmente cambiato, il segretario generale destituito e poi arrestato; al suo posto, nel 1937, fu nominato, sempre dal Comintern, Tito. Arrivato al vertice per imposizione dall'esterno, non per scelta interna del proprio partito, Tito si rivelerà invece il più geloso tutore dell'autonomia dei comunisti jugoslavi e dello Stato jugoslavo. La premessa indispensabile a questo atteggiamento se la conquistò con le armi durante la guerra, che lo vide assurgere a capo d'una lotta partigiana eroica e sanguinosa, a conclusione della quale la Jugoslavia, unico Paese nell'Europa occupata, si era liberata da sola dal giogo nazista, senza attendere l'arrivo dell'Armata Rossa. Il senso profondo della lotta di librazione era anche, parole di Tito, di «creare una Jugoslavia che non fosse più il satellite di qualche grande potenza»: che era invece il rango al quale Stalin intendeva ridurre la Jugosla via. Sta qui la radice del conflitto fra Tito e Stalin, già serpeggiante durante la guerra, rimasto latente nell'euforia dei primi anni del dopoguerra, quando la costruzione del socialismo in Jugoslavia sembrava indirizzarsi sul modello sovietico, scoppiato infine violentemente all'aperto nel 1948. Non occorre qui riandare nei particolari a come e perché si giunse, il 28 giugno di quell'ari no, alla scomunica lanciata da Stalin, tramite il Cominform, contro Tito e l'intero partito comunista jugoslavo. Sta il fatto che la profezia di Stalin, che gli sarebbe bastato un cenno del mignolo per far crollare Tito, non si realizzò; al contrario, il maresciallo raccolse la sfida, fu sostenuto dalla quasi totalità del partito e dei popoli jugoslavi e cominciò così a scrivere una nuova pagina nella storia della Jugoslavia, del movimento comunista e delle relazioni internazionali. Nel quarto di secolo trascorso dal 1948 a oggi Tito, tra maturità e tarda età, ha spiegato appie¬ no le sue doti di politico e di statista: sul piano interno, nella invenzione e costruzione di una originale «via jugoslava al socialismo», fondata sul principio dell'autogestione; sul piano internazionale, nella scelta del «non allineamento» con l'uno o l'altro schieramento. Per mantenere questa linea Tito ha dovuto, e deve, condurre un continuo esercizio di equilibrio tra Washington e Mosca; ed è appunto in questo quadro che si inseriscono le alterne vicende dei rapporti jugo-sovietici, non solo rapporti politici fra Stati, ma anche rapporti ideologici fra partiti comunisti. Dalla scomunica del Cominform all'«andata a Canossa» di Kruscev nel maggio '55, cioè il viaggio a Belgrado per chiudere l'infelice parentesi aperta da Stalin; da fasi di buon accordo a nuove crisi per l'Ungheria e la Cecoslovacchia o poi, come si diceva all'inizio, a nuovi periodi d'intesa; dalle preoccupazioni jugoslave per la «dottrina Breznev» e per la spinta sovietica al Mediterraneo agli opposti timori per l'«imperialismo» americano: questo è il panorama continuamente variabile in cui si è svolta l'attività politica di Tito. Ferdinando Vegas Il presidente Tito, visto da Levine (Copyright N. Y. Rcview of llooks. Opera Mundi e per l'Italia La Stampa)