La via di Damasco di Stefano Reggiani

La via di Damasco REGISTI DEL CINEMA D'ESSAI La via di Damasco A Ravenna, solo il pubblico cercava precisi messaggi politici (Dal nostro inviato speciale) Ravenna, novembre. Che cosa accade ad un intellettuale sulla via di Damasco? Se cadrà abbacinato dalla visione, come l'apostolo Paolo, in che modo riaprirà gli occhi sul mondo? Il film di Gianni Toti, dal titolo « E di Sahul e dei sicari sulle vie da Damasco », è già stato presentato e dibattuto alle Giornate del cinema di Venezia; qui a Ravenna ha avuto un seguito di discussione e di analisi, che sembra riassumere efficacemente, alla conclusione, il significato del «Challenge internazionale del film d'arte e d'essai ». Davanti all'opera di Toti gli spettatori appaiono ingenuamente faziosi, cercando nel cospicuo materiale stipato fra la sceneggiatura e le didascalie una morale immediata. « Perché lei dice che i guerriglieri palestinesi sono gli eredi degli zeloti? Come ricollega a S. Paolo la teologia della morte di Dio? Ha inteso codificare un cristianesimo marxista? ». Toti spiega invano che ha voluto costruire un poemetto, attraverso un repertorio dei Grandi Problemi che corrono in duemila anni di storia. Sulla via di Damasco la sua ideologia ha perso l'attitudine predicatoria, non cerca ascoltatori, ma compagni di viaggio. Bisogna tuttavia dire che il film, pure nuovo e tonificante, ha in sé una contraddizione iniziale, poiché è più logico e saggistico che visionario, in una dotta requisitoria che sente più la filosofia della poesia. Dunque i registi, reduci da Damasco, sono ormai i portatori di una concezione dialettica e insicura del mondo, lontana dalle illusioni che rendevano utili i «messaggi » cinematografici degli Anni Cinquanta. In questa situazione il pubblico più avvertito è tentato dall'efficacia strumentale di un cinema di intervento politico, mentre i critici sono più sensibili ai valori linguistici e alle rivoluzioni d'autore. Se ne è avu¬ ta in qualche modo conferma nella premiazione che ha chiuso il challenge: il pubblico ha votato per « I traditori », film sui sindacati di un collettivo argentino, la critica ha scelto « Illumination » di Zanussi, lacerante atto di pietà sulla condizione umana. Gli spettatori che si occupano, forse in modo troppo blando e distratto, delle cose d'America Latina, potrebbero usare la pellicola presentata a Ravenna come un test rivelatore. Il romanzo sindacale realizzato dal « Grupo Cine de la Base » si svolge nel giro di diciassette anni, dalla caduta di Perón ai mesi precedenti il suo ritorno. Roberto Barrerà, operaio peronista, è sincero difensore dei compagni finché lavora in fabbrica, ma una volta giunto alla guida del sindacato mostra la sua natura cinica alleandosi con il regime e accettando denaro per calmare le agitazioni e gli scioperi. Sarà ucciso in una rivolta spontanea da un gruppuscolo sindacale che lotta per espellere i «traditori». I commenti politici di questi giorni dall'Argentina confermano che questo nuovo tipo di lotta è fra i più caldi che la politica di Perón deve affrontare. Chissà se il vecchio Presidente ha assistito al film del Grupo Cine de la Base. Se lo ha visto ne avrà apprezzato, oltre i propositi ideologici, la scaltra qualità del racconto che innesta i problemi sindacali su un traliccio pieno di passioni e di colpi di scena, come in un tempestoso fotoromanzo. In « Illumination » di Zanussi un giovane studioso medita sulla fragilità umana e sui limiti e le crudeltà della scienza nei laboratori dell'università, nell'ospedale, nei dibattiti, ed è una presenza discreta e inquieta che pone domande in apparenza goffe e datate. In altri tempi sarebbe diventato un poeta, oggi è uno scienziato pieno di angosce sincere. Non accetta senza interrogativi la visione della sofferenza altrui, non è soddisfatto della fuga dal mondo (come gli capita di vedere in un monastero). La sua resa personale sarà di godere le piccole cose, sopportare la malattia dentro di sé, entrare in contatto con la natura (un volo di gabbiani, una gita al mare, l'impronta di una mano sulla neve). Ognuno vede quante insidie letterarie fossero in questa materia; Zanussi, il migliore tra i giovani registi polacchi, le ha superate con una tensione dolorosa, con una forza interna che scandisce e ordina le immagini secondo uno stile assolutamente puro. Fuori dai premi, sempre opinabili, resta da dire almeno di due opere che si vorrebbero vedere presto nelle sale d'essai: «Rompere il cerchio », dell'ungherese Peter Bacso, e «Re Lear», del sovietico Grigorj Khsinsev. Il film di Bacso venne presentato al Festival del cinema d'autore di Sanremo due anni fa. E da allora cerca un pertugio nei programmi delle sale specializzate. Racconta di un giovane operaio ungherese, tentato dapprima dall'espatrio clandestino e poi dall'amore verso la figlia di un ingegnere, superburocrate di fabbrica. Dovrà rinunciare alla ragazza ripresa nel giro borghese dopo una cruciale esperienza fra i disagi proletari; ma forse si salverà con un nuovo lavoro, imparando a usare i computers e sconfiggendo con la tecnologia le resistenze dei vecchi dirigenti. Il film è ingrato, perché cade fuori dei facili miti e dei dibattiti semplificati. Il regista Khsinsev, di cui si conosce in Italia un eccellente « Amleto », è un grande studioso di Shakespeare e un suo interprete acuto. Questa nuova impresa è splendente, re Lear è catturato dall'immagine con il peso della sua immedicabile follia. Chi potrà dimenticare facilmente il volto febbricoso del re e il pianto filiale di Cordelia? Stefano Reggiani

Persone citate: Bacso, Gianni Toti, Grandi Problemi, Grupo, Lear, Peter Bacso, Shakespeare