Gli ebrei sotto i Cesari

Gli ebrei sotto i Cesari LONTANE LE RADICI DELLA PERSECUZIONE Gli ebrei sotto i Cesari Da qualche settimana, Israele è tornato in prima pagina e il problema del Medio Oriente è al centro dell'attenzione. Tra voci discordanti, si colgono giudizi che sembrano derivare da posizioni ideologiche spesso recentemente assunte, più che da conoscenza esatta delle cause immediate e dei presupposti del conflitto. Ma, nel fondo delle nostre coscienze, una voce ripete senza posa: perché? perché nessuno mai, come Israele, ha attirato su di sé, per millenni, scherno, disprezzo e persecuzione, ha subito coercizioni, deportazioni, e, a volte, massacri? Fino a Babilonia L'orrore delle Olimpiadi di Monaco rimbalza su Buchenwald, su Dachau, sui pogrom polacchi, sulla Spagna di Filippo II, e, sempre più indietro, al Medioevo, all'antica Roma, alla Grecia, all'Egitto a Babilonia. Negli autori più remoti troviamo le stesse accuse: superbo particolarismo, riti abbietti, orgoglio razziale, subdolo espansionismo: «Parlo sottovoce — dice Cicerone, nel pronunciare la difesa del primo governatore della Giudea, accusato d'estorsione — quanto basta per farmi sentire dai giudici: poiché voi sapete quanto siano numerosi i giudei, e solidali tra loro, e persuasiva la loro loquela». Era il 59 a. C. La Giudea era stata annessa come provincia da tre anni. E già nei seguaci di quella « barbara superstitio » Cicerone additava i più irriducibili avversari di Roma. Insistenti nel proselitismo, secondo Orazio; spregiatori degli altri numi, per Plinio; devoti a un Dio indefinibile, per Lucano. Quel Dio, infatti, non era visibile nel loro tempio: quando vi penetrò Pompeo, che aveva aggredito Gerusalemme di sorpresa, un sabato, rimase stupefatto nel constatare che quel famoso santuario non conteneva im¬ magini. « Non tengono in nessun conto le leggi di Roma — scrive Giovenale — ma osservano soltanto un codice trasmesso da Mose. Se non sei dei loro, non t'insegnano la strada; solo ai circoncisi indicano la fonte ». Disprezzano le religioni degli altri popoli, scrive Tacito; e aggiunge la nota più rivelatrice: « Presso di loro si rifugiano da ogni dove i nemici di Roma ». Era così forte la suggestione di quella loro religione arcana che soltanto Tito, l'imperatore che soffocò la loro rivolta nel sangue, sull'arco di trionfo, di seguito al suo nome, rifiutò quello coniato dal nome dei vinti, com'era l'uso: Druso aveva chiamato Germanico il figlio e Claudio chiamò Britannico il suo; Traiano sarà Dacico e Partico; ma l'attributo « Judaicus » avrebbe voluto dire non vincitore dei giudei quanto « convertito al giudaismo ». Si rifiutavano di lavorare il sabato, di consumare il rancio consistente in carne suina; si astenevano dal culto imperiale, dagli spettacoli, dalle festività pagane, dai banchetti; nozze, funerali, divorzi, testamenti tra loro si facevano in modo diverso, sì che ottennero dall'imperatore esoneri o misure particolari di diritto pubblico e privato. Caratteristiche che li isolavano, anche in una società promiscua e tollerante come quella romana. Quella perenne situazione di « diversi » suscitava invidie, sospetti, misure restrittive e stimolava in loro le deformazioni psichiche proprie delle minoranze: la solidarietà, la diffidenza, una passività sconcertante di fronte alla violenza, o una smania irritante di emergere. C'era qualcosa che li rendeva inassimilabili: l'aveva già individuato Ecateo, un autore del IV secolo a.C: « Anche inermi, indifesi, affrontano le torture e la morte, pur di non ripudiare la fede dei padri ». Nella « fede dei padri », però, il pensiero antico non riconosce soltanto la religione, ma la cultura, il complesso ideologico, etico, politico, sociale di un popolo. Era qualche cosa di più che la fede in un dio unico supremo e vigile, che rifiutava qualsiasi forma di culto esteriore ( « non ho bisogno di prendere i tuoi vitelli né dal tuo gregge i capri»); era una concezione che diventava altissima e universale non appena si attenuavano le tensioni nazionalistiche; era l'istanza, e quindi l'attesa, di un regno di giustizia immancabile. I libri di Israele contenevano una risposta agli oppressi, prima che il Vangelo isolasse questi elementi e ne facesse il suo motivo principale U(E' lui che risana chi ha il cuore infranto e fascia le sue piaghe, che conta il numero delle stelle e le chiama tutte a nome: il Signore protegge i mansueti e umilia ì superbi... »). I comandamenti non sono transitori e modificabili, poiché non furono elaborati in una determinata contingenza storica, ma dettati da Dio e quindi validi per sempre, per tutti gli uomini. Politica e dogma Ma è appunto il tenace attaccamento di Israele a un preciso complesso di ideali che lo rende perennemente impermeabile ai miti degli altri popoli, alle dottrine, alle ideologie perentorie come religioni; ed è per questo che l'animosità contro Israele matura e prorompe tutte le volte che si instaura un regime improntato ad acceso nazionalismo, tutte le volte che un'idea politica assume il carattere di dogma. Come avevano rifiutato di adorare Nabucodònosor e i faraoni, così i giudei respinsero l'impatto dell'ellenismo: quando Antioco Epifane volle sottometterli, resistettero e definirono « radice di iniquità » quella fioritura incompa¬ rabile dello spirito umano, poiché portava con sé il sottile argomentare dei filosofi, una folla di divinità impassibili e serene, la poesia profana, il rilassamento dei costumi. Allo stesso modo, anche se politicamente sudditi di Roma e sottoposti a tributi, si sottrassero alla soggezione spirituale di fronte all'impero. Tale ardire è deplorato persino da un autore giudeo, Giuseppe Flavio, (.«Sopportano il giogo di Roma — fa dire al loro re — tutti i popoli della Terra: e voi, siete forse più ricchi dei galli, più astuti dei greci, più valorosi dei germani, più numerosi degli altri popoli?»). Non 10 erano, e furono sconfitti. 11 tempio fu distrutto e Tito allineò sulle mura di Gerusalemme cinquemila crocifissi. In qualsiasi provincia, si trovavano in posizione di antagonismo e disparità; per questa ragione, nel 38 d. C, ad Alessandria, scoppiò un tumulto e il ghetto fu devastato. Irritato, Caligola ordinò che la sua statua fosse collocata in tutte le sinagoghe e persino nel tempio di Gerusalemme. La comunità ebraica di Alessandria inviò a Roma una missione diplomatica; il capo di essa, Filone, ha lasciato un rapporto circostanziato del suo soggiorno nell'Urbe. Per mesi e mesi non riuscì a farsi ricevere dall'imperatore; un giorno, finalmente, Caligola concesse l'udienza; ascoltò distrattamente le rispettose rimostranze dei giudei d'Alessandria, che lo seguivano, trafelati e sgomenti, mentre percorreva a grandi passi le sale dei suoi palazzi, e ordinava ad architetti e decoratori modifiche, pitture murali, apertura di nuove finestre. Quando, infine, sembrò accorgersi dei delegati e posò su di loro la sua attenzione: « Disgraziati e sciocchi — esclamò — più che malvagi! Non riuscite a persuadervi che io sono un dio! ». Lìdia Storoni

Persone citate: Antioco Epifane, Cesari, Cicerone, Filone, Giuseppe Flavio, Storoni, Tacito, Traiano