Cinque inutili bottiglie

Cinque inutili bottiglie RITORNO IN AMERICA Cinque inutili bottiglie Domenica mattina. Pattiamo per la Napa Volley: Mouskatine e Ferruolo, emeriti professori entrambi all'Università di California, ci sono guida e garanzia. Fino a oggi, mi era stato impossibile dissociare il nome della Vallata, che è celebre in tutti gli States per i suoi vini, dal tono concitato e sinistro del recitativo verdiano: «Di Napata le gole: ivi saranno i miei ». Oggi il cielo sereno, il sole sfolgorante, il vento teso e leggero, soprattutto il paesaggio annullano sùbito e per sempre l'assurdità ossessiva, sebbene esclusivamente fonica, di quel richiamo. Napa Volley, per chi viene dalla Baia di San Francisco, si apre verso Nord tra le alture di Sonoma a occidente e, ad oriente, quelle di Santa Helena: una vastissima pianura ordinatamente coltivata a vigneti e frutteti. Paesaggio anche malinconico: ma malinconico solo per me, perché per me, ormai, è tale qualunque paesaggio che non stia tra, diciamo, la Linea Gotica e la catena dei passi alpini. E se ripenso alle foreste o alle savane del West Africa e dell'Etiopia, e le confronto con ciò che provo attraversando sia i deserti sia le regioni più mirabilmente coltivate degli States, mi pare di poter dire che la malinconia africana è oggettiva, e questa, invece, è tutta soggettiva: racchiude qua si un rancore segreto e lontano, forse il rimpianto di non essere diventato, come volevo e quando volevo, « cittadino americano ». A Oakville, la nostra prima tappa enologica, parcheggiamo davanti allo stabilimento di Robert Mondavi. La lunga bassa facciata, di color avorio, arieggia l'architettura delle antiche Missioni spagnole in California: ma con simpatica modestia, nonostante le grandiose dimensioni: con una certa grazia e semplicità: insomma, sen za nessuno di quegli eccessi decorativi, fieristici e pubblicitari, alla violenza visiva della cui aggressività, nella plaga di Los-Angeles, tanto si stringe il nostro cuore europeo. Attigui, dello stesso colore giallino e dello stesso stile, i capannoni dove le uve si pigiano, fermentano i mosti, maturano i vini. E tutto intorno, a perdita d'occhio, le vigne Troviamo 1) una dozzina di torpedoni azzurri. Sono arrivati pochi minuti prima di noi. Ne stanno ancora scendendo : visitatori domenicali. Le « wi neries », le fattorie del vino, sono oggi una delle principali attrattive del turismo californiano. E il fenomeno è così imponente che merita una spie gazione. ★ ★ • Scotch, bourbon, gin, cognac rum: le cinque bottiglie di liquore che ci eravamo affrettati a comprare appena preso possesso della nostra casa a Berkeley, dopo tre mesi erano ancora lì, piene, sigillate, sulla mensola del caminetto. Quasi' ogni sera abbiamo avuto ospiti, vecchi e giovani, soprattutto giovani: ma nessuno beveva liquori, tutti soltanto vino. Partendo, abbiamo poi regalato le cinque bottiglie a Mrs. Nakagaki, la giapponese che veniva saltuariamente a rassettare. E quando, tornato in Italia mi sento chiedere se ho trovato un'America molto diversa, resto incerto; ma poi ricordo lo sfrenato consumo che in ogni occasione si faceva di liquori quarantanni or sono, all'epoca del mio primo soggiorno, e dichiaro che, sì, c'è qualcosa di cambiato. Il vino era allorar un lusso. Il vino buono, anche se francese, una rarissima eccezione. Il vino di California, infine, praticamente imbevibile: al punto che gli europei che ne fecero l'esperienza una volta preferiscono ancor oggi non ripeterla. A pagina 163 dell'Honorary Causiti, il nuovo romanzo di Graham Greene, che racconta una storia estremamente attuale, l'Ambasciatore Britannico a Buenos Aires dice alla moglie: « Era un vino terribile, cara, quello che abbiamo bevuto ieri sera all'Ambasciata Americana: californiano, suppongo ». E il mio vecchio amico Enzo Giachino, vissuto a lungo negli Anni Trenta tra la California e il Missouri, così rispose a una cartolina che gli avevo mandato da Berkeley poco dopo il mio arrivo: « Mi fa piacere e mi sorprende che tu sia così entusiasta: vedo che trovi buoni perfino i vini di California! ». Dirò dunque che l'astensione dai liquori (più drastica qui che in tutti gli altri Stati dell'Unione perché fa parte della msl i a moda hippie e naturista qui trionfante e „perché i vini si sposano alla marijuana ma i liquori no) si collega a uno straordinario aumento nella produzione e nel consumo dei vini di California, e a uno stupefacente miglioramento della loro qualità. Il primo che assaggiai fu una bottiglia che Arnolfo Ferruolo ci portò all'aeroporto. Era ancora abbastanza freddo e l'abbiamo bevuto subito. Era il Fumé Blanc di Robert Mondavi. Secco, leggero, chiaro, quasi salato: gradevolissimo sebbene non senza quel gustarello -di solfito che, del resto, inasprisce, da qualche lustro, tutti i « vini industriali » d'Italia più pubblicizzati, e che, da qualche secolo» continua a inasprir re, nella sua primitiva e rustica varietà di semplice gusto di zolfo, tutti i vini dei Castelli Romani. Restò il vino abitualmente preferito da mia moglie e, in fondo, anche da me, durante l'intera nostra permanenza in America. Non escludo, però, ripensandoci adesso, che tale preferenza fosse dovuta a qualcos'altro, oltre che a un giudizio strettamente organolettico. Forse associavamo inconsciamente il sapore del Fumé Blanc di Robert Mondavi alla gioia dell'arrivo: all'ebbrezza, dopo quindici ore di volo, di avere toccato terra, e alla riflessione non meno inebbriante che fosse proprio quella Terra dell'Oro lungamente vagheggiata nei nostri sogni adolescenti, salgariani e pucciniani. Ma co sì è, amici enofili e, se oso dire, colleghi enologhi: in questo appunto, secondo me, si identifica la più segreta virtù del vino buono: nel misterioso potere di fondersi coi momenti felici e poi rievocarli. * ★ A dire il vero, il professor Mouskatine era gentilmente venuto con noi non per presentarci a Mondavi, che del resto non conosceva neanche, ma per accompagnarci a Santa Helena, dal più' famoso produttore di vino di tutta l'America, l'ottantaseiehne Louis M. Martini; genovese, dean of'ioinegrowers, il decano, il patriarca dei vitivinicultori, dal quale aveva ottenuto per mia moglie e per me un non facile invito al lunch. Sennonché, Oakville è sulla strada di Santa Helena; e Robert Mondavi era stata una mia idea. Io stesso, perciò, mi faccio strada verso di lui, in mezzo alla folla dei visitatori. Naturalmente, non sa chi io sia. Ho tra le mani i due volumoni da me scritti sul vino: glieli porgo presentandomi. Mondavi capisce, mi accoglie con entusiasmo. E' un uomo sulla cinquantina, adusto, robusto, stempiato, bruni capelli ricci, occhio vivissimo, e un lieve difetto di pronunzia, una esse fricativa che è come il segno della sua naturale finezza e gentilezza. I suoi genitori, Cesare e Rosa, sono marchigiani. Nelle Marche, in provincia di Pesaro, c'è un piccolo comune chiamato Mondavio: un paesello di collina, dove esistono vigne e, guarda un po', miniere di zolfo. Cesare emigrò nel 1906. Cominciò a lavorare come minatore nel Minnesota. Nel 1908 venne in Italia, sposò Rosa, tornò subito indietro con lei. Rimasero nel Minnesota fino al 1922. Furono quattordici durissimi anni in cui i Mondavi costruirono le basi della loro fortuna. Cesare lavorava nella miniera. Aveva casa in un villaggio vicino, e Rosa teneva a pensione una ventina di minatori, provvedendo al loro alloggio, al vitto, alla biancheria. Lavorò, così, per quattordici anni, ogni giorno dalle sei di mattina fino a mezzanotte. Una donna formidabile. Ho letto la bella biografia a lei dedicata da Angelo M. Pellegrini in « American by choice » (New York, Mac Millan, 1956, pag. 127 sgg.). Rosa lavorò, faticò, e guadagnò, più dello stesso marito. Coi risparmi, nel 1922 i Mondavi si trasferirono nel West. Si stabilirono a Lodi, in California. Cesare mise su una grande ditta per il commercio ortofrutticolo. Prosperò continuamente: finché, nel 1943, acquistò, per i figli Robert e Peter, la famosa azienda e tenuta vinicola Charles Krug, che esisteva dal 1861, credo la più antica degli States. Con la Krug, Robert imparò il mestiere, e alcuni anni or sono fondò la Robert Mondavi. Gli dico della nostra simpatia per il Fumé Blanc: potremmo gustarlo direttamente dalla botte? Per un attimo, appare sconcertato: nessuno dei visitatori gli ha mai fatto simile richiesta. Poi: « Sure! » Certo! E parte, con slancio, alla ricerca di un thief. Noi lo seguiamo. Ma è domenica: non ci sono tecnici né operai: solo qualche impiegato e qualche hostess per ricevere i turisti. Dietro Mondavi, a passo di carica, attraversiamo lunghi, alti, ampi corridoi tra vasche e cisterne di fermentazione. Poi vastissime sale, dove, tutto intorno, sfavilla l'acciaio inossidabile di cilindri, tubi, pompe, filtri, presse, autoclavi refrigeranti, pigiadiraspatrici Vasliri. Altre sale interamente occupate da schiere di scaffali pieni di botti, e che fanno pensare agli scaffali di un archivio pieni di codici. Tutto è in perfetto ordine e pulizia. . Mondavi apre e chiude porte, portelli, saracinesche, uscioli: entra ed esce nelle sale, negli uffici, nei laboratori delle analisi: guarda in ogni angolo, s'impazienta, si lamenta: possibile che non ci sia neanche un thief? Dove diavolo li hanno cacciati? Le botti sono di rovere, ma chiarissime, cioè di legno ancora molto giovane: e abbastanza piccole perché, in rapporto al volume, una grande quantità di vino venga così a contatto con la superficie del rovere e ne prenda un po' il profumo amarognolo, leggermente resinoso. Il thief, eccolo finalmente! Ne troviamo uno dietro una cassa. Comunissimo strumento che anche noi chiamiamo « il ladro », è un cannello, generalmente di vetro, aperto dai due capi, che si introduce nelle botti, e si lascia riempire di vino: poi si ritrae, tappandone col pollice l'orifizio superiore. Così il vino entratovi non ne esce se non levando il pollice, e perciò si può estrarre dalla botte per assaggiarlo. Per chi, come me, sia ormai incamminato a quell'uscita di infallibile sicurezza e di lunghezza ignota che si chiama vecchiaia, pochi piaceri restano che eguaglino quello di assaggiare vino dalla botte. Ma vale per tutti quest'altra verità: se tutto il resto (anni del vino, tipo, qualità, ambiente di conservazione) è pari, qualunque vino di bòtte ' risulta nettameneè' più gradevole, più sano, più digeribile di qualunque vino di bottiglia o di fiasco. Perdonabile, quindi, se non ci siamo fermati al Fumé Blanc'. Mondavi ha voluto provare con noi, un bicchiere dopo l'altro, il Chenin Blanc, il Sauvignon Blanc, il Traminer, il Riesling, poi i suoi rossi, il Gamay, il Pinot Noir, il Cabernet Sauvignon... Così, quando mi accorsi che Mouskatine cercava di attirare, la mia attenzione, non era certo la prima volta che piegava verso- di me la fronte velata dal vaporoso ciuffo argenteo e, con un sorriso ancora più furbesco di quello che sembrava fisso sul suo viso ucraino, non era la prima volta che mi indicava, ammiccando, l'ora al polso: l'ora del lunch da Louis M. Martini. Ci avviammo. Nel luminoso atrio di rappresentanza, già la chief-hostess, una svizzera, offriva ai visitatori gli antipasti di formaggini e salamini. Cordialissimo, fervido, Robert Mondavi ci invita al suo tavolo: ma si acqueta con sorprendente prontezza, quasi col timore di avere commesso una gaffe, non appena un sussurro di Mouskatine lo avverte che siamo attesi a Santa Helena. Tanto è il rispetto che circonda, tra i vitivinicultori americani, il loro grande Patriarca Genovese. Racconterò la prossima volta ciò che tuttavia accadde tra lui e me. Mario Soldati