L'Egitto diverso di Sadat di Sandro Viola

L'Egitto diverso di Sadat COM'È MUTATA LA STRUTTURA DEL POTERE AL CAIRO L'Egitto diverso di Sadat Dopo il rovescio militare egiziano sembrava possibile che il presidente, responsabile d'aver dichiarato una guerra cui s'erano opposti anche alcuni quadri superiori dell'esercito, fosse costretto a dimettersi e che al Cairo stesse per scoppiare una violenta incerta lotta per il potere - Ma il regime ha reagito con omogeneità e compattezza - Il nazionalpopulismo d'un tempo ha ceduto il posto a uno statalismo più composto e maturo (Dal nostro inviato speciale) Il Cairo, 1 novembre. Quando fu chiaro che il quarto conflitto tra Egitto e Israele si stava chiudendo con un rovescio militare egiziano (un rovescio non decisivo, allo stesso modo che i successi colti dall'esercito israeliano nell'ultima settimana di guerra sono di tipo non decisivo), la prima reazione di chi segue con regolarità la vicenda politica di questo Paese fu di pensare a una possibile caduta di Anwar El Sadat. Una reazione, o più esattamente un riflesso condizionato, che veniva dalla pratica delle crisi egiziane. Quante volte infatti, dal '67 in poi, era stata pronosticata la caduta di Nasser? E quante voit ' dopo l'ascesa di Sadat (subito definito, in quello scorcio del 1970, uomo di transizione) era parso di vedere i sintomi certi della sua eclisse? Giorni di panico / due o tre giorni successivi al primo cessate il fuoco di lunedì 22 ottobre, quando II Cairo e l'u establishment » egiziano furono investiti (per cause emotive e psicologiche più che politico-militari) da un'ondata di panico, quel riflesso scattò come di consueto. Era stato Sadat, in fondo, sia pure attraverso tanti e patetici tentennamenti, a volere la guerra. Si sapeva che una larga parte dei quadri superiori dell'esercito e della marina (la parte più legata all'ex ministro della Difesa Sadek) si era pronunciata qualche mese fa contro l'azione militare; e che contrari erano parecchi ministri, oltre a importanti settori dell'apparato statale. Per cui, avendo deciso quasi da solo di lanciarsi nell'avventura militare, e questa essendosi conclusa con i carri israeliani a cento chilometri dalla moschea di El Azhar (il cuore dell'Islam moderno), sembrava plausibile che Sadat potesse essere costretto alle dimissioni, e che al Cairo stesse per scoppiare una violenta, incerta lotta per il potere. Fu a questo punto che ci si accorse quanto profondamente differisca l'Egitto di oggi da quello nasseriano e immediatamente postnasseriano. Dov'erano le alternative, i « centri di potere », gli uomini che in questi anni, tante volte, erano parsi minacciare prima il grande Nasser e poi Sadat? Non c'erano. Non c'era l'esercito del '67, tutto raccolto attorno ad Abdel Hakim Amer (e deciso a non fare da capro espiatorio della disfatta), né l'esercito dell'inizio del '71, in buona parte al- lineato — tramite Mohamed Fawzi — con Ali Sabri e Sharawi Gomaa. Non c'era il partito dell'estate '68 (retto in pugno da Ali Sabri) che s'era insolentemente intromesso nei rapporti tra Nasser e Mosca, né il partito del maggio '71 che, rigettando il progetto di federazione Egitto-Siria-Libia, era stato a un passo dal rovesciare Sadat. Non c'era, distaccata sullo sfondo del regime per la diversità del linguaggio, per l'impazienza verso le velleità guerresche e rivoluzionarie (alternativa « moderna », efficientistica del potere personale), la classe dei tecnocrati. Quei giorni, la settimana scorsa, si è capito che la struttura del potere egiziano non è più la stessa. Una impressione di omogeneità, addirittura di compattezza, emanava dall'Egitto sadattiano, che pure stava attraversando una fase febbrile. Chi avrebbe dovuto rovesciare Anwar El Sadat, chi poteva prenderne il posto? Di certo, lo spazio per una o due ipotesi, c'era. L'ipotesi Sadek, per esempio, l'ex ministro della Difesa (intimo di Gheddafl.) che si presenta all'esercito, gli fa comprendere che è stato gettato allo sbaraglio, e chiede la testa del « leader ». O l'ipotesi — sempre più stantia — dei giovani ufficiali « rivoluzionari ». Potere personale Ma era come voler arrampicarsi sugli specchi. La verità era, è, che uno sguardo al regime com'è oggi non rivela individualità, istituzioni, ideologie che possano rappresentare una vera sfida al centro-destra sadattiano. Il potere è ancora essenzialmente di tipo personale (com'era stato nelle varie fasi del nasserismo), ma non « personificato », perché Sadat non ha carisma. Al vertice del regime c'è quindi più gente che conti di quanta non ce ne fosse un tempo: sono però creature del capo, in massima parte provenienti dall'apparato dello Stato (funzionari, diplomatici), e non gli « ufficiali liberi », i compagni di complotto che potevano sempre contendere a Nasser la primogenitura della « rivoluzione ». Il nazionalpopulismo di un tempo, quel ricorso con| tinuo — seppure controllato in modo ferreo — alle masse, ha ceduto il posto a uno statalismo più composto e maturo. Il culto della personalità è stato tentato, ma piuttosto timidamente, e quindi abbandonato. Di chi doveva aver paura, dunque, nelle ore difficili della scorsa settimana (prima che la favorevole prospettiva diplomatica di questi giorni rasserenasse il pa- norama), Sadat? Il partito non esiste più. Man mr.no che in questi tre anni ne smorzava i contenuti ideologici — confusi, certo, ma pur sempre socialisteggianti — Sadat ne ha anche smantellato le strutture. La « destra », e cioè i tecnici, i dirigenti degli organismi economici, quel che resta della classe dei proprietari terrieri, la massa degli speculatori, è dal '71 (dall'emanazione delle nuove leggi che incoraggiano l'iniziativa privata) sulla cresta dell'onda. La « sinistra » — gli ex comunisti, gli intellettuali — che comunque ha sempre avuto un peso ridottissimo, sembra tramortita da due anni di docce scozzesi: oggi un incarico di responsabilità, domani un arresto, dopodomani un recupero, il giorno seguente un licenziamento in tronco. E questo senza parlare della guerra. Una guerra ha sempre la sua capacità di coesione, i suoi contenuti d'unione nazionale, ciò che è accaduto anche per il conflitto del sei ottobre. La « sinistra », gli studenti, tutti coloro che rimproveravano a Sadat il verbalismo e l'inazione (un'elite tanto debole, comunque, che invece di far capo a un potere alternativo, a una seria ipotesi di ricambio, si riunisce attorno a un cantautore — di talento, certo, ma alla fin fine un cantautore — come Fuad Negm), hanno dovuto allinearsi e ormai parlano di « scoperta d'un grande statista ». Un compromesso Così, due considerazioni, soprattutto, vengono in mente alla vista di questo Egitto « diverso », tanto meno fragile politicamente di quanto era sembrato negli anni scorsi. La prima verte sulla abilità di Sadat, la pazienza e l'oculatezza con cui ha disinnescato le minacce che gli gravavano sul capo al momento dell'ascesa al potere. La seconda riguarda lo sbaglio, il secondo sbaglio, commesso da Israele. L'avventura militare del sei ottobre, ormai è chiarissimo, ha rettificato tutta l'ottica preesistente sull'equilibrio delle forze nella regione. Il fulmine di guerra israeliano non terrorizza più: Dayan o chi gli succederà può ancora vincere una guerra, ma a un costo tale da rendere assai più conveniente ricercare un compromesso. Il primo errore di Israele è stato di non discernere la crescita che si stava verificando negli eserciti egiziano e siriano, di crederli ancora votati alle spettacolari fughe in massa di cui si sorrideva — e neppure velatamente — nelle conferenze stampa dei portavoce militari a Tel Aviv. Mentre il secondo sbaglio è quello di aver creduto (e di averci puntato) alla balcanizzazione del mondo arabo. Ci sono due piccoli uffici, al ministero degli Esteri di Gerusalemme, dove seggono un paio d'esperti di politica araba. Chi, come noi, vi si era recato in questi anni a chiedere lumi, veniva per prima cosa fornito d'una spe¬ cie di tabella ciclostilata, chiarissima, con allineati a fianco del nome d'ogni Paese arabo i colpi di Stato (un dischetto nero), i tentativi di Putsch (una stelletta), e qualche altra indicazione sui sommovimenti interni del Paese. Poi parlava l'esperto. e il discorso variava, di volta in volta, assai poco. I regimi arabi, Egitto compreso, non potevano essere assunti come interlocutori che con enorme cautela: essi erano infatti troppo instabili, il loro connotato più preciso era la precarietà. Invece le cose stavano cambiando, e in parte cambiavano proprio sotto la sferza degli atteggiamenti israeliani: quel non prendere mai sul serio la capacità militare degli eserciti arabi, il non dare alcuna fiducia alla possibilità d'una concertazione interaraba, la sicurezza con cui sì teneva per scontata la congenita fragilità di questi regimi. Un errore che sbalordisce se si pensa all'intelligenza ebraica, e alla vasta e drammatica esperienza del mondo arabo che Israele ha accumulato in questo quarto di secolo. Resta da indicare ancora un altro lineamento dell'Egitto sadattiano che si affaccia al dopoguerra. La denasserizzazione, il dissolvimento sempre più rapido delle vestigia dell'era di Gamal Abdel. Con la stessa puntigliosità (anche se più a rilento, senza gesti spettacolari) con cui Nasser aveva fatto tabula rasa del regime precedente alla «rivoluzione» del '52, Sadat va cancellando uno dopo l'altro i resti delle varie incarnazioni che il nasserismo assunse nei suoi diciassette anni di vita. La « filosofia », il linguaggio, le simbologie di questo lungo periodo sono ormai sprofondati nel dimenticatoio. Gli uomini, l'abbiamo visto, sono scomparsi. Ma questo processo, che sino all'anno scorso sembrava avere come principale risultato una progressiva mediocrizzazìone del Paese e del suo « stile », comincia a dare i primi frutti positivi. « Non potendo risolvere i problemi dell'Egitto, scrisse Ibrahim Farhi, Nasser li aveva incarnati... ». Con una certa sorpresa, ci si accorge che Sadat potrebbe risolverne almeno una parte. Sandro Viola Suez. Sadat sul fronte lungo il Canale. Sarebbe stato il Presidente a volere la guerra, sebbene fossero contrari parecchi ministri e generali (Ap) JM