Petrolio ancora riduzioni di Mario Ciriello

Petrolio ancora riduzioni Offensiva araba Petrolio ancora riduzioni Dopo l'Arabia Saudita, anche il Kuwait blocca le esportazioni agli Usa - Ma a risentire delle riduzioni sono l'Europa e il Giappone (Dal nostro inviato speciale) Kuwait, 21 ottobre. Gli arabi sono ancora all'attacco sul «fronte del petrolio». Anche il Kuwait ha deciso di ridurre la sua produzione del 10 per cento e di bloccare tutte le esportazioni di petrolio agli Stati Uniti Una decisione simile era stata presa ieri dall'Arabia Saudita, dai cui pozzi sgorgano oltre sette milioni e 200 mila barili. Il nemico è l'America (Bahrein, un altro emirato del Golfo ha chiesto ieri a Washington di sgomberare immediatamente una piccola base navale sul suo territorio) ma sempre più diffusa è la convinzione che questa guerra economica colpirà non tanto gli Stati Uniti bensì altri Paesi ben più vulnerabili, anche se considerati «amici» dalle nazioni arabe. La situazione è cambiata notevolmente da mercoledì scorso, quandi i ministri per il petrolio di dieci nazioni arabe concordarono di ridurre progressivamente la produzione di petrolio. Un primo taglio del 5 per cento in ottobre, quindi un altro 5 per cento ogni mese successivo, in una «escalation» che dovrebbe terminare soltanto dopo «il completamento del ritiro israeliano e il ripristino dei diritti legali del popolo palestinese». Poche ore prima, i ministri dei sei Stati del Golfo Persico avevano annunciato un aumento del 17 per cento nel «prezzo di mercato» del minerale. Da allora Qatar, Bahrein, Algeria, Arabia Saudita e oggi il Kuwait hanno inasprito il taglio iniziale portandolo al 10 per cento. Non è ben chiaro in quale arco di tempo debba avvenire tale riduzione: nel caso del Kuwait sembra abbracciare ottobre e la prima quindicina di novembre. Pure in questi giorni, Algeria, Qatar e Bahreir Kuwait, Libia e Abu Dhabi hanno deciso di non vendere più petrolio agli Usa. Le società, spesso americane, hanno ricevuto ordine di mandare le loro petroliere verso altri porti. Egitto, Siria e Iraq non prenderanno probabilmente altre misure perché le loro esportazioni di petrolio servono a sostenere le loro «economie di guerra». L'Iran, con una produzione di oltre sei milioni di barili il giorno (secondo soltanto dopo l'Arabia Saudita) è tra i sei che hanno stabilito gli aumenti di prezzo. Le proteste e le preghiere della Siria hanno anzi contribuito non pqco ad accrescere la combattività del Kuwait e dell'Arabia Saudita sul «fronte del petrolio». Il ministro siriano per il petrolio, Jaber Al Kafri ha dichiarato a Kuwait: « Bisogna attaccare più risolutamente l'America. Gli israeliani stanno distruggendo sistematicamente la nostra economia. Abbiamo subito danni spaventosi. Hanno bombardato porti, fabbriche, raffinerie, installazioni di ogni genere». Il bersaglio, è l'America, ma l'America può fare a meno del petrolio mediorientale, sia perché rappresenta soltanto il 6 per cento del suo fabbisogno, sia perché tale è il suo spreco di energia in ogni settore e vastissime sono le possibilità di risparmio.Non così felice è la posizione dell'Europa e del Giappone, il cui fabbisogno è alimentato dall'ttoro nero» arabo nella misura rispettiva di oltre il 60 e di oltre l'80 per cento. Gli arabi lo sanno e, con un calcolo forse troppo machiavellico, sperano che europei e giapponesi, intimoriti dalle conseguenze inflazionistiche e politiche di una carenza di petrolio, premano su Washington e la in¬ ducano a riesaminare il suo atteggiamento verso Israele. Vari governi europei già stanno muovendosi per appurare le intenzioni dei Paesi arabi nei loro confronti. Al ministero per il petrolio di Kuwait un funzionario ha detto ai giornalisti: «Tutti gli ambasciatori ci telefonano per sapere se sono nella lista nera ». Ieri, gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna hanno avuto un incontro con lo sceicco di Abu Dhabi (produzione un milione e 400 mila barili al giorno) e a quanto pare avrebbero ricevuto la promessa che i loro Paesi non saranno colpiti. Anche il governo italiano farebbe bene ad agire con rapidità in questa situazione sempre più tesa. La possente economia giapponese morirebbe di sete senza i rifornimenti arabi, che in alcuni settori colmano fino al 90 per cento del fabbisogno. Ma oggi il governo Tanaka è accusato sia per non aver assunto una «netta posizione» verso il conflitto mediorientale, sia per avere sollecitato la creazione di una organizzazione internazionale dei consumatori di petrolio. (In altre parole, di uno strumento con la compattezza necessaria per una eventuale «confrontation» con i produttori). Delegazioni nipponiche giungeranno nei prossimi giorni nelle capitali arabe. Anche perché, come avverte oggi il «Kuwait Times», l'accetta della rappresaglia potrebbe calare sulle importazioni giapponesi, che nel solo Kuwait hanno ormai superato le americane, con un guadagno nel '72 di quaranta milioni di dollari. Mario Ciriello Petrolio ancora riduzioni Offensiva araba Petrolio ancora riduzioni Dopo l'Arabia Saudita, anche il Kuwait blocca le esportazioni agli Usa - Ma a risentire delle riduzioni sono l'Europa e il Giappone (Dal nostro inviato speciale) Kuwait, 21 ottobre. Gli arabi sono ancora all'attacco sul «fronte del petrolio». Anche il Kuwait ha deciso di ridurre la sua produzione del 10 per cento e di bloccare tutte le esportazioni di petrolio agli Stati Uniti Una decisione simile era stata presa ieri dall'Arabia Saudita, dai cui pozzi sgorgano oltre sette milioni e 200 mila barili. Il nemico è l'America (Bahrein, un altro emirato del Golfo ha chiesto ieri a Washington di sgomberare immediatamente una piccola base navale sul suo territorio) ma sempre più diffusa è la convinzione che questa guerra economica colpirà non tanto gli Stati Uniti bensì altri Paesi ben più vulnerabili, anche se considerati «amici» dalle nazioni arabe. La situazione è cambiata notevolmente da mercoledì scorso, quandi i ministri per il petrolio di dieci nazioni arabe concordarono di ridurre progressivamente la produzione di petrolio. Un primo taglio del 5 per cento in ottobre, quindi un altro 5 per cento ogni mese successivo, in una «escalation» che dovrebbe terminare soltanto dopo «il completamento del ritiro israeliano e il ripristino dei diritti legali del popolo palestinese». Poche ore prima, i ministri dei sei Stati del Golfo Persico avevano annunciato un aumento del 17 per cento nel «prezzo di mercato» del minerale. Da allora Qatar, Bahrein, Algeria, Arabia Saudita e oggi il Kuwait hanno inasprito il taglio iniziale portandolo al 10 per cento. Non è ben chiaro in quale arco di tempo debba avvenire tale riduzione: nel caso del Kuwait sembra abbracciare ottobre e la prima quindicina di novembre. Pure in questi giorni, Algeria, Qatar e Bahreir Kuwait, Libia e Abu Dhabi hanno deciso di non vendere più petrolio agli Usa. Le società, spesso americane, hanno ricevuto ordine di mandare le loro petroliere verso altri porti. Egitto, Siria e Iraq non prenderanno probabilmente altre misure perché le loro esportazioni di petrolio servono a sostenere le loro «economie di guerra». L'Iran, con una produzione di oltre sei milioni di barili il giorno (secondo soltanto dopo l'Arabia Saudita) è tra i sei che hanno stabilito gli aumenti di prezzo. Le proteste e le preghiere della Siria hanno anzi contribuito non pqco ad accrescere la combattività del Kuwait e dell'Arabia Saudita sul «fronte del petrolio». Il ministro siriano per il petrolio, Jaber Al Kafri ha dichiarato a Kuwait: « Bisogna attaccare più risolutamente l'America. Gli israeliani stanno distruggendo sistematicamente la nostra economia. Abbiamo subito danni spaventosi. Hanno bombardato porti, fabbriche, raffinerie, installazioni di ogni genere». Il bersaglio, è l'America, ma l'America può fare a meno del petrolio mediorientale, sia perché rappresenta soltanto il 6 per cento del suo fabbisogno, sia perché tale è il suo spreco di energia in ogni settore e vastissime sono le possibilità di risparmio.Non così felice è la posizione dell'Europa e del Giappone, il cui fabbisogno è alimentato dall'ttoro nero» arabo nella misura rispettiva di oltre il 60 e di oltre l'80 per cento. Gli arabi lo sanno e, con un calcolo forse troppo machiavellico, sperano che europei e giapponesi, intimoriti dalle conseguenze inflazionistiche e politiche di una carenza di petrolio, premano su Washington e la in¬ ducano a riesaminare il suo atteggiamento verso Israele. Vari governi europei già stanno muovendosi per appurare le intenzioni dei Paesi arabi nei loro confronti. Al ministero per il petrolio di Kuwait un funzionario ha detto ai giornalisti: «Tutti gli ambasciatori ci telefonano per sapere se sono nella lista nera ». Ieri, gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna hanno avuto un incontro con lo sceicco di Abu Dhabi (produzione un milione e 400 mila barili al giorno) e a quanto pare avrebbero ricevuto la promessa che i loro Paesi non saranno colpiti. Anche il governo italiano farebbe bene ad agire con rapidità in questa situazione sempre più tesa. La possente economia giapponese morirebbe di sete senza i rifornimenti arabi, che in alcuni settori colmano fino al 90 per cento del fabbisogno. Ma oggi il governo Tanaka è accusato sia per non aver assunto una «netta posizione» verso il conflitto mediorientale, sia per avere sollecitato la creazione di una organizzazione internazionale dei consumatori di petrolio. (In altre parole, di uno strumento con la compattezza necessaria per una eventuale «confrontation» con i produttori). Delegazioni nipponiche giungeranno nei prossimi giorni nelle capitali arabe. Anche perché, come avverte oggi il «Kuwait Times», l'accetta della rappresaglia potrebbe calare sulle importazioni giapponesi, che nel solo Kuwait hanno ormai superato le americane, con un guadagno nel '72 di quaranta milioni di dollari. Mario Ciriello

Persone citate: Tanaka