E' un rischio mal calcolato del successore di Nasser? di Igor Man

E' un rischio mal calcolato del successore di Nasser? E' un rischio mal calcolato del successore di Nasser? L'improvviso attacco egiziano è l'atto risolutivo che egli aveva promesso al Paese fin dal 1971 - Aveva definito la ripresa della guerra contro Israele, in un'intervista a "Newsweek", "l'incubo che metterà fine a tutti gli incubi" - Aggiunse: "Saremo tutti perdenti" «Un paio di baffi appesi nel nulla», così, un giorno, Nasser definì Sadat. Un giudizio espresso in un momento di malumore, ha pesato a lungo su Sadat. Oggi il «paio di baffi appesi nel nulla» sta giocando una partita tremenda: dopo aver parlato a lungo di «battaglia del desti no » l'erede di Nasser ha fatto scattare sul quadrante mediorientale l'ora della verità. I fatti diranno s'egli è un velleitario incapace ovvero un capo coraggioso consapevole di correre un rischio calcolato. Dopo la sconfitta del 1967, «Jeune Afrique» definì Nasser «l'uomo del rischio mal calcolato»; toccherà anche al suo successore pagare lo scotto di un'avventura militare che si profila più pericolosa di quella del 1967? Considerato un mediocre dai suoi stessi compagni del Consiglio della rivoluzione, dallo establishment egiziano, Anuar el Sadat con l'assunzione del potere ha tuttavia rivelato doti insospettate di lottatore e di manovratore. Accettò al suo fianco la presenza di Ali Sabri, il capo del cosiddetto gruppo filosovietico, non tanto per contentare Mosca quanto per un calcolo di politica interna. Quando i tempi furono maturi colpì inesorabile e rapido. Il Putsch freddo del 14 maggio 1971, un 18 brumaio in formato ridotto, può essere giudicato un piccolo capolavoro: saltarono, sia pure in senso metaforico, le teste di Ali Sabri, del ministro degli Interni Gomaa, del potente capo delle forze armate generale Fawzi. Non fu sparsa una goccia di sangue. Il «dopo Nasser» durò assai poco, al ritratto del rais defunto si sostituì ben presto quello di Sadat, caratterizzato dal «Callo neo» nel mezzo della fronte, «segno di predilezione da parte di Allah e del Profeta ». Nasser era un populista, credeva nella sua rivoluzione. Sadat, uomo di destra, legato ai Fratelli Musulmani in gioventù, simpatizzante dell' Asse durante l'ultima guerra mondiale, è un borghese. Ha tentato, non senza successo, un recupero della ricca borghesia dissequestrando beni confiscati, ed è riuscito a travolgere le ultime resistenze dei benpensanti sfrattando i sovietici nel luglio del 1972. Nell'esercizio del potere ha agito con un duro pragmatismo di cui han pagato le spese un po' tutti: dal partito unico, l'Unione socialista araba, ai giornalisti, dalla « intellighencija» ai burocrati. L'illusione di un governo «liberale» affidato al diplomatico Fawzi, quella di un governo di tecnocrati gestito da Sidki, è durata poco. Il 26 marzo del 1973 Sadat ha assunto tutti i poteri: capo dello Sta to, capo del governo, governatore generale e comandanto supremo delle forze armate Così, oggi, la responsabilità della guerra ricade interamente sulle sue spalle. Sadat ha parlato spesso di guerra ma anche di pace. Nel febbraio, del 1971 egli sembrava disposto a negoziare, mostrandosi interessato a una soluzione interlocutoria della crisi mediante l'apertura del Canale di Suez. A quanto, si affermò allora, al Presidente egiziano sarebbe bastato il ritiro delle truppe israeliane fino al passo di Mitla. Sarebbe arrivato addirittura a dire a Rogers e a Sisco di contentarsi dello sgombero «dei territori» non «di tutti». Secondo la propaganda del Cairo, la buona volontà dell'Egitto venne riconosciuta da Sisco e da Rogers. Presidente della Federazione egiziana di pingpong, Sadat venne giudicato in quell'occasione da eminenti commentatori americani «un abile giocatore, un realista da non deludere». Ma il fallimento della missione Rogers «deluse» Sadat che proclamò il 1971 «anno decisivo», della grande battaglia. Che poi non venne. Da allora, contestato all'interno dagli studenti e dai militari, al centro di opposte tensioni, Sadat ha condotto una politica contraddittoria, alternando minacce di guerra ad aperture diplomatiche. Il suo ministro degli Esteri, Zayyat, il 3 febbraio del 1973 in una intervista a questo giornale mi disse: «Noi vogliamo la pace. La violenza comporta un prezzo troppo alto per un Paese come l'Egitto che vuole progredire, svilupparsi. Una squadriglia di aerei costa dodici milioni di sterline, bastano pochi attimi di battaglia per mandarli in fumo. No, la violen¬ za non paga. La crisi del Medio Oriente è un problema che riguarda noi e Israele direttamente. E occorre risolverlo, appunto, voltando le spalle alla violenza». Tuttavia, pochi mesi dopo, il tono cambia. Il 9 aprile 1973 in una intervista concessa a «Newsweek», Sadat afferma che gli Stati Uniti, accusati di aiutare Israele «in maniera indecente», «hanno dimenticato una co sa: la mentalità araba. Tutti in Medio Oriente potranno godere di un futuro migliore se avremo una pace basata sulla giustizia. In caso contrario qui verrà un incubo che metterà fine a tutti gli incubi. E tutti quanti saremo perdenti». In altre parole, gli chiese l'intervistatore, bisogna combattere per poter poi parlare? Risposta: «Come minimo. I tempi so no cambiati e anche qui tutto sta cambiando in previsione della battaglia». Forse in queste dichiarazioni di Sadat è possibile trovare la chiave del «mistero psicologico» che avvolge la decisione egiziana di riscattarsi dalla frustrazione imposta dallo stato di « né guerra né pace» combattendo, sia pure ad armi impari. Sempre nell'intervista a «Newsweek», alla domanda: una disfatta totale sarebbe preferibile a questa situazione né di pace né di guerra?, Sadat rispose: «Gli arabi non saranno mai disfatti completamente. Potremo avere ancora delle sconfitte, come nel 1967, ma sopravivremo e, alla fine, il conquistatore dovrà arrendersi, come tutti i conquistatori hanno fatto nella storia». Ora «l'incubo» che dovrebbe metter fine «a tutti gli incubi» è venuto. Saremo veramente perdenti «tutti quanti»? Igor Man itrat'j Il Cairo. Il presidente Sadat, in tenuta di guerra, nel quartiere generale egiziano (AP) E' un rischio mal calcolato del successore di Nasser? E' un rischio mal calcolato del successore di Nasser? L'improvviso attacco egiziano è l'atto risolutivo che egli aveva promesso al Paese fin dal 1971 - Aveva definito la ripresa della guerra contro Israele, in un'intervista a "Newsweek", "l'incubo che metterà fine a tutti gli incubi" - Aggiunse: "Saremo tutti perdenti" «Un paio di baffi appesi nel nulla», così, un giorno, Nasser definì Sadat. Un giudizio espresso in un momento di malumore, ha pesato a lungo su Sadat. Oggi il «paio di baffi appesi nel nulla» sta giocando una partita tremenda: dopo aver parlato a lungo di «battaglia del desti no » l'erede di Nasser ha fatto scattare sul quadrante mediorientale l'ora della verità. I fatti diranno s'egli è un velleitario incapace ovvero un capo coraggioso consapevole di correre un rischio calcolato. Dopo la sconfitta del 1967, «Jeune Afrique» definì Nasser «l'uomo del rischio mal calcolato»; toccherà anche al suo successore pagare lo scotto di un'avventura militare che si profila più pericolosa di quella del 1967? Considerato un mediocre dai suoi stessi compagni del Consiglio della rivoluzione, dallo establishment egiziano, Anuar el Sadat con l'assunzione del potere ha tuttavia rivelato doti insospettate di lottatore e di manovratore. Accettò al suo fianco la presenza di Ali Sabri, il capo del cosiddetto gruppo filosovietico, non tanto per contentare Mosca quanto per un calcolo di politica interna. Quando i tempi furono maturi colpì inesorabile e rapido. Il Putsch freddo del 14 maggio 1971, un 18 brumaio in formato ridotto, può essere giudicato un piccolo capolavoro: saltarono, sia pure in senso metaforico, le teste di Ali Sabri, del ministro degli Interni Gomaa, del potente capo delle forze armate generale Fawzi. Non fu sparsa una goccia di sangue. Il «dopo Nasser» durò assai poco, al ritratto del rais defunto si sostituì ben presto quello di Sadat, caratterizzato dal «Callo neo» nel mezzo della fronte, «segno di predilezione da parte di Allah e del Profeta ». Nasser era un populista, credeva nella sua rivoluzione. Sadat, uomo di destra, legato ai Fratelli Musulmani in gioventù, simpatizzante dell' Asse durante l'ultima guerra mondiale, è un borghese. Ha tentato, non senza successo, un recupero della ricca borghesia dissequestrando beni confiscati, ed è riuscito a travolgere le ultime resistenze dei benpensanti sfrattando i sovietici nel luglio del 1972. Nell'esercizio del potere ha agito con un duro pragmatismo di cui han pagato le spese un po' tutti: dal partito unico, l'Unione socialista araba, ai giornalisti, dalla « intellighencija» ai burocrati. L'illusione di un governo «liberale» affidato al diplomatico Fawzi, quella di un governo di tecnocrati gestito da Sidki, è durata poco. Il 26 marzo del 1973 Sadat ha assunto tutti i poteri: capo dello Sta to, capo del governo, governatore generale e comandanto supremo delle forze armate Così, oggi, la responsabilità della guerra ricade interamente sulle sue spalle. Sadat ha parlato spesso di guerra ma anche di pace. Nel febbraio, del 1971 egli sembrava disposto a negoziare, mostrandosi interessato a una soluzione interlocutoria della crisi mediante l'apertura del Canale di Suez. A quanto, si affermò allora, al Presidente egiziano sarebbe bastato il ritiro delle truppe israeliane fino al passo di Mitla. Sarebbe arrivato addirittura a dire a Rogers e a Sisco di contentarsi dello sgombero «dei territori» non «di tutti». Secondo la propaganda del Cairo, la buona volontà dell'Egitto venne riconosciuta da Sisco e da Rogers. Presidente della Federazione egiziana di pingpong, Sadat venne giudicato in quell'occasione da eminenti commentatori americani «un abile giocatore, un realista da non deludere». Ma il fallimento della missione Rogers «deluse» Sadat che proclamò il 1971 «anno decisivo», della grande battaglia. Che poi non venne. Da allora, contestato all'interno dagli studenti e dai militari, al centro di opposte tensioni, Sadat ha condotto una politica contraddittoria, alternando minacce di guerra ad aperture diplomatiche. Il suo ministro degli Esteri, Zayyat, il 3 febbraio del 1973 in una intervista a questo giornale mi disse: «Noi vogliamo la pace. La violenza comporta un prezzo troppo alto per un Paese come l'Egitto che vuole progredire, svilupparsi. Una squadriglia di aerei costa dodici milioni di sterline, bastano pochi attimi di battaglia per mandarli in fumo. No, la violen¬ za non paga. La crisi del Medio Oriente è un problema che riguarda noi e Israele direttamente. E occorre risolverlo, appunto, voltando le spalle alla violenza». Tuttavia, pochi mesi dopo, il tono cambia. Il 9 aprile 1973 in una intervista concessa a «Newsweek», Sadat afferma che gli Stati Uniti, accusati di aiutare Israele «in maniera indecente», «hanno dimenticato una co sa: la mentalità araba. Tutti in Medio Oriente potranno godere di un futuro migliore se avremo una pace basata sulla giustizia. In caso contrario qui verrà un incubo che metterà fine a tutti gli incubi. E tutti quanti saremo perdenti». In altre parole, gli chiese l'intervistatore, bisogna combattere per poter poi parlare? Risposta: «Come minimo. I tempi so no cambiati e anche qui tutto sta cambiando in previsione della battaglia». Forse in queste dichiarazioni di Sadat è possibile trovare la chiave del «mistero psicologico» che avvolge la decisione egiziana di riscattarsi dalla frustrazione imposta dallo stato di « né guerra né pace» combattendo, sia pure ad armi impari. Sempre nell'intervista a «Newsweek», alla domanda: una disfatta totale sarebbe preferibile a questa situazione né di pace né di guerra?, Sadat rispose: «Gli arabi non saranno mai disfatti completamente. Potremo avere ancora delle sconfitte, come nel 1967, ma sopravivremo e, alla fine, il conquistatore dovrà arrendersi, come tutti i conquistatori hanno fatto nella storia». Ora «l'incubo» che dovrebbe metter fine «a tutti gli incubi» è venuto. Saremo veramente perdenti «tutti quanti»? Igor Man itrat'j Il Cairo. Il presidente Sadat, in tenuta di guerra, nel quartiere generale egiziano (AP)