Un bel mattino in ospedale di Gigi Ghirotti

Un bel mattino in ospedale VIAGGIO NEL TUNNEL DELLA MALATTIA Un bel mattino in ospedale Ci sono giorni in cui anche l'anima d'un malato si sveglia colma di desiderio di partecipare, di celebrare, d'esser parte d'un tutto e consonante con gli altri - Ma con chi sciogliere quest'inno? - La solitudine angoscia i degenti più della malattia - Come s'usa in altri Paesi, andate negli ospedali, senza paura di disturbare: l'importante è che chi soffre non sia lasciato solo Roma, ottobre. Era la domenica di Pentecoste, l'anno scorso, ed io, in una stanza del « Forlanini » da poco operato al torace sentivo dalle finestre salire per la prima volta dopo tanti giorni il tepore della primavera, e mi sembrava fosse quello il segnale atteso: il segnale che il lungo e freddo esilio era finito, e ch'ero riammesso al coro della vita. Ci sono, anche negli ospedali, di queste mattine in cui l'anima si sveglia colma di desiderio di partecipare, di celebrare, d'essere parte d'un tutto, e consonante con gli altri. E quel mattino, giusto mi sentivo l'anima in forme di cattedrale e d'inno: ma con chi scioglierlo, quest'inno? Il mio vicino di letto, il signor Saverio, bravissima persona, sicuro: ma, direttore d'un istituto creditizio in una delle nostre città-contadine del Sud, arrivato da pochi giorni con la faccia del condannato a morte e tuttora in attesa d'intervento chirurgico, mi sembrava il meno adatto ad accogliere una qualsiasi proposta di tipo pentecostale. Il giorno del suo arrivo, al vederlo cosi contristato, m'era parso doveroso incoraggiarlo: nella sventura, gli dissi, poteva dirsi fortunato, poiché anche lui, come me, sarebbe stato operato dal prestigioso Di Paola, bisturi celebre, venivano da tutto il mondo per farsi tagliare da lui. Il signor Saverio mi lanciò uno sguardo furibondo. « Se lei chiama fortuna l'aver lavorato un'intera vita, mai un solo gior¬ no di malattia in quarantanni di servizio, e in finale, al momento d'essere collocato a riposo, trovarsi invece lontano da casa, in un ospedale, anzi nell'anticamera della sala operatoria... ». Da un moto vivace delle sue lenzuola capii che quel discorso non avrebbe mai avuto conclusione orale: vidi infatti spuntare, secche e nervose, le sue due piccole mani, l'indice e il mignolo puntati su di me nel segno dello scongiuro. Duro silenzio Gestualmente offeso, decisi d'osservare nei suoi confronti un duro silenzio di rappresaglia. Ma di lì ad un'ora, il mio infelice vicino di letto, riemergendo con la testolina biunca e nervosa dall'abisso della sua sconsolatezza, s'assunse all'improvviso l'iniziativa del disgelo. « E i piatti, le posate, qui dentro, chi le lava? », domandò. « Per i piatti, nessuna preoccupasene: abbiamo qui al "Forlanini" impianti tra i più perfetti e moderni d'Europa ». E lasciai crudelmente sospeso il seguito. « E le posate? », incalzò il signor Saverio, con un gemito. « Oh, per le posate, signor Saverio, ognuno si lava le proprie! ». Il poveretto si drizzò a sedere sul letto, rosso in faccia e ululante per l'ira. «Sicché, lei trova anche giusto che un uomo come me, che ha lottato tutta la sua vita per elevarsi, e che, venuto dal nulla, s'è fatto da solo e ha conquistato con mille sacrifici una rispettabilità, nsasssgvLglsfictnsisDav non faccio per dire, indiscussa, come premio finale abbia da essere promosso sguattero!? ». « Trovo giusto », gli risposi con l'accento di severità che riservo per le grandi occasioni, « che gli ospedali assumano medici, infermieri, tecnici capaci di governare le macchine che servono per guarirci, piuttosto che inservienti per lavarci le posate. Lo sa che, in Inghilterra, negli ospedali gli ammalati aiutano il personale a rifare i letti?». Il signor Saverio scomparve tra le lenzuola. Quando riemerse in superficie, aveva l'aria d'un uomo cambiato: non di molto tuttavia. Due opposte concezioni della vita, era evidente, si fronteggiavano, separate appena dal breve spazio tra i due letti. Mi domandò se la trasandatezza del servizio, se quel rude ugualitarismo da caserma che l'ospedale imponeva e di cui m'ero fatto paladino, giovassero, in realtà, alla salute dei malati. Dovetti ammettere che no. E lo lasciassi dunque gemere a pieno diritto sulla doppia sciagura del cadere ammalato, e del cadervi in ospedali simili a quello! Incorreggibile, mi sentii nuovamente in obbligo di correre in suo aiuto. « Niente paura, signor Saverio: passerà tutto, e presto: l'importante è guarire. Guariremo, e io la verrò a trovare in Puglia. Faremo una bella gita insieme: andremo ad Otranto! ». Non sono mai stato ad Otranto; ma sempre, arrivando con l'aereo dal Levante, ho desiderato metter piede un giorno su quella bianca predella che si disegna nell'assoluta limpidezza del mare. Il signor Saverio mi stava ad ascoltare senza rispondere. « Lei è di quelle parti. Mi farà da guida ad Otranto, non è vero, signor Saverio? ». « Mai stato ad Otranto. Non ho mai avuto il tempo di andare ad Otranto! », esclamò l'infelice. E mi raccontò la storia della sua vita: una storia che, prima d'allora, avrei creduto impossibile nel chiuso d'un nostro indolente paesane del Sud. Da Manhattan, da Francoforte, dalla City, forse anche da Milano e da Zurigo, dalle grandi officine dell'alienazione contemporanea potrebbero arrivarci biografie simili, ragionavo. Ma ragionavo male: campione e vittima della competitività più forsennata, il poveruomo era salito da fattorino a direttore di filiale bancaria, sema l'appoggio di nessuno. Ritorno alla vita Quel mattino dunque, al mio sguardo, la situazione si presentava drammatica, pentecostalmente parlando. Non potevo chiedere al mio condegente il minimo contributo di letizia per il mio ritorno alla vita; e ciò per due ragioni, una più valida dell'altra. Per prima cosa, il poveretto si torceva tra i dubbi d'aver tutto sbagliato nella sua vita: si sentiva fallito, e finito, e crollati i miti, gli ideali, il fine stesso della rispettabilità al quale aveva dedicato ogni suo desiderio. In secondo luogo, e anche questo era un pensiero che certo lo rallegrava assai po¬ co, l'operazione al torace gli era stata fissata per l'indomani. Soavi, silenziosi e compunti apparvero in quel frangente due giovani nerovestiti. Con decisione, indirizzarono i loro passi verso il mio vicino di letto, piazzandosi ai lati del capezzale. Il signor Saverio, a quella vista, mi lanciò uno sguardo disperato. Era pallidissimo, lungo disteso, come impietrito, sotto le lenzuola: eppure, in quell'immobilità, si poteva notare all'altezza delle mani una febbrile animazione. Di sicuro, pensai, il signor Saverio li ha scambiati per necrofori e sta lavorando ad esorcizzarli. Erano, invece, due allievi del seminario anglo-americano che sorge sul Gianicolo e che, d'abitudine, santificano la festa andando in giro per gli ospedali. Li chiamai, parlando in inglese, al mio capezzale. « Ho un problema, un problema che forse voi potete aiutarmi a risolvere! ». "Veni Creator" « Lei ha qualche devozione particolare? » mi fece il più giovane dei due; e m'additò una iconetta che tenevo sul tavolino, e che mostrava un San Giorgio in sella, il mantello ben rosso svolazzante sulle spalle. « Non esattamente », risposi. « Tengo qui San Giorgio perché, essendo un santo mai esistito, gli posso attribuire i pensieri e le imprese che voglio. Nessuno mi vieta di immaginare che questo San Giorgio sia un santo di sinistra (dissi proprio così: a leftist sainty: a me va benissimo, sono leftist anch'io ». Vidi i due seminaristi ondeggiare, nel dubbio d'aver posto il piede su una trappola teologico-politica. « Lei è un lavoratore? », mi domandò il più giovane. E senza aspettare risposta: « Lo sono stato anch'io. L'anno scorso, a questa data, facevo automobili a Detroit ». Gli domandai se nel loro seminario si studia latino e si canta in gregoriano. «Perché vuol sapere questo?». « Perché ho bisogno di un inno perduto. Tanti anni fa — aggiunsi — l'Italia che era stata per lungo tempo divisa in due dalla guerra, tornò a riunirsi. Si riapriva il Parlamento; ma subito alle prime battute ci si avvide come e quanto il Paese fosse ancora diviso. Chi voleva solennizzare l'evento con grandi messe, chi con un rito strettamente civile all'Altare della Patria, chi non voleva né questo né quello. Tra questi pareri discordi si alzò inUne la voce d'un vecchio filosofo liberale. Benedetto Croce che, da posizioni di insospettabile laicismo suggerì che i parlamentari d'ogni partito e d'ogni idea intonassero nell'atto di aprire la pagina della nuova storia un inno, il "Veni Creator Spiritus". Ora, anch'io avevo bisogno d'un inno, di quell'inno: m'aiutassero a ripescare dalla memoria il « Veni Creator »... Era questo il mio problema, confidai, e forse lo era anche per il mio vicino. Al seminario del Gianico¬ lo, appresi, il « Veni Creator » non s'insegna, o almeno non s'impara. Ma il giovane venuto da Detroit se lo ricordava: l'aveva cantato — ragazzo — nel coro della parrocchia. Mi prese per le mani; lo cantammo insieme sottovoce, forse un po' commossi. Alle parole « accende lumen sensibus », l'infelice signor Saverio aveva già i lucciconi. Non so come stia, e neppure se viva. In Puglia, ad Otranto, non sono ancora stato (aspetto sempre di guarire) e non sono molto sicuro che il signor Saverio mi potrà mai accompagnare in qualsiasi parte, per ben che gli sia andata. In punta di piedi Mi domando perché, dopo tanto tempo, questo ricordo ospedaliero mi continui ad inseguire, e perché io l'abbia raccontato in pubblico. Forse la spiegazione è questa: anni fa mi trovavo a Londra, in un albergo di Hampstead, quando fui risvegliato, una domenica mattina, da un'allegra fanfara che se ne andava strombettando per la via. Mi rivestii in fretta e furia, corsi sulla strada, raggiunsi la fanfara: i suonatori se ne andavano all'ospedale a far un po' d'allegria per i malati; e i malati comparivano da tutte le finestre. Bicordo una balconata di lievi sposine in vestaglietta, una veranda di ragazzi, vecchi signori in seggiola a rotelle, un occhieggiare intenerito di ragazze che dall'alto mandavano baci all'indirizzo della modesta fanfara, che, nel centro del cortile, eseguiva « pezzi » a richiesta dell'uditorio. Ecco: la cosa che vorrei dire a conclusione è questa: non abbiate paura di disturbare. Una volta si usava girare in punta di piedi attorno all'ospedale. Ma è un'usanza sparita da un pezzo: adesso pare che gli indici più alti e drammatici della rumorosità urbana si vadano registrando appunto in coincidenza, con gli ospedali. Non fatevi scrupoli, dunque, per il «disturbo»; l'importante è che il malato non sia lasciato solo. Può avere bisogno di un inno, tante volte. Gigi Ghirotti Una giovane ammalata seduta su un lettino d'ospedale: dove la solitudine è più angosciosa dei disagi e delle sofferenze (Foto Dfp)

Persone citate: Benedetto Croce, Di Paola, Soavi