Un impero senza barbieri

Un impero senza barbieri RITORNO IN AMERICA: IL RIFIUTO DEI PADRI Un impero senza barbieri Negli Anni Trenta, i "barber shops" erano enormi botteghe sfolgoranti di luci, con dozzine di lavoranti - Abilissimi anche nella chiacchiera, i siculi americani erano in grande maggioranza - Tutto questo non esiste più - Con i rasoi di sicurezza ed elettrici si guadagna tempo e denaro, ma si perde la ricchezza morale, la vitalità di un insostituibile rapporto umano Washington. Erano, come sempre, le cinque e quindici del pomeriggio: vicinissima, come sempre, l'ora per me affannosa della chiusura generale: la fine improvvisa, precoce, proditoria, improrogabile e definitiva della giornata! Ero sceso di corsa fino ad Arlington, e avevo appena fatto in tempo a comperare quattro umilianti barattoli di similbirra da bere a cena, allorché, uscendo dal market, mi avvidi di un'insegna non lontana che, per colpa del « verso » della porta, entrando non avevo notato. Aprire la porta Una delle più irritanti illogicità degli usi e costumi statunitensi consiste nel verso rigorosamente adottato da botteghe, magazzini, uffici, locali pubblici nell'apertura delle porte. Illogicità, ma anche stranezza o addirittura follia: il verso contraddice senza rimedio al sistema consumistico e pubblicitario che è spina dorsale dell'attuale civiltà americana. Ospitale, accogliente, invitante alla visita e alla spesa può infatti definirsi soltanto un locale dove, per entrare, basta spingere la porta. Spingerla, non tirarla. Tirare implica uno sforzo, una violenza, quasi il principio di un'effrazione. E poiché, d'altra parte, qualunque edificio o casa ha sèmpre un po' della prigione, ed entrare dalla libera strada in un luogo chiuso significa sempre rinunciare temporaneamente a una maggiore autonomia per accettarne una minore, non c'è dubbio che, se si vuole compensare, nel cliente o nell'avventore, questa sensazione di cattura e clausura, bisogna facilitargli l'ingresso. Mentre all'uscita, dato che il meccanismo psicologico con cui si passa dal chiuso all'aperto ha sempre, di per sé, qualcosa di allegro e liberatorio, il cliente o l'avventore può affrontare più leggermente e più spensieratamente lo sforzo di tirare. Una legge di due opposti e reciproci compensi fa dunque sì che il sistema adottato in Europa (spingere per entrare, tirare per uscire) sia moderno, razionale, strutturalmente americano. L'ignoranza di cotesta legge fa sì che il sistema adottato in America sia antiquato, sciocco, strutturalmente europeo. Come spiegare l'assurdo? Forse con « il complesso d'inferiorità tipico dei figli». Molte volte i figli, volendo dimostrare a tutti i costi la propria indipendenza, la propria raggiunta virilità, spasimano di opporsi al padre e finiscono, così, per identificarsi con lui: scelgono il contrario di ciò che ha scelto il padre anche quando la scelta fatta dal padre sarebbe, in fondo, più conforme al loro carattere che non a quello del padre stesso. Oppure, e insieme, si tratta di un ritardo nell'evoluzione, di un « rimasuglio » caratteristico di comunità che in passato si sono staccate dalla madrepatria per insediarsi in terre lontane e nuove, non civilizzate. E' probabile che tre o quattro secoli fa anche in Europa, quando la vita associata era meno sicura di oggi, le porte dei pubblici locali si aprissero, per entrare, tirando, e, per uscire, spingendo. Primi antenati Fu proprio allora che emigrarono dall'Europa in America i primi antenati degli attuali statunitensi: ed è normale che, in un Paese ancora selvaggio, abbiano incominciato a conservare questi e altri usi consimili: normale che abbiano continuato a conservarli in un Paese ormai estremamente progredito ma dove le distanze sono sempre immense rispetto alla rarità della popolazione. In un certo senso, è proprio per un'affettuosa sebbene involontaria fedeltà ai loro padri europei che gli americani, in tante piccole costumanze e manifestazioni, restano senza saperlo antiquati. Tutto questo per dire che se, per entrare nel market, non avessi dovuto tirare a me la porta, avrei visto immediatamente, verso sinistra, un'insegna luminosa non lontana, Barber Shop, e mi ci sarei precipitato, rinunciando volentieri alle similbirre da bere a cena. Scommetto, sogghignai tra me con la voluttuosa amarezza di prevedere il peggio ma anche con la scaramantica speranza di prevedere sbagliando, scommetto che non potrò farmi radere perché l'ora è passata! La bottega era al mezzanino, le finestre all'altezza dell'insegna. Salii una scaletta di legno incassata nelle pareti. Entrai. In fondo a uno stanzone lungo, bas! so, bianco, un barbiere, uno solo, alto grosso biondogrigio ricciuto occhialuto, con un gran càmice bianco da infermiere, stava tagliando i capelli all'ultimo cliente della giornata: l'ultimo perché non ce n'era altri in attesa; e, del resto, tutto qui si fa per appuntamento, tutto accade per appuntamento, la vita intera (il lavoro come i piaceri, le necessità fisiologiche come i bisogni fantastici e morali) si svolge programmata, articolata e segmentata secondo una successione impla- cabile e continua di appuntamenti, obbligando all'orario l'uomo come se fosse un tram, privandolo della prima e della più bella di tutte le libertà, quella di cambiare idea. ''La barba?" « You want un appointment? ». Volete un appuntamento? mi domanda infatti il barbiere, sospendendo, per scrupolo professionale, il proprio lavoro. « No, grazie. Vorrei, adesso: ma solo la barba ». « La barba?! Voi dite che vorreste che io vi radessi?!». « Si ». Sembra sbalordito. Al punto che, lì per lì, non gli riesce più di parlare. Con gli occhi celesti che gli brillano al centro dei tondi occhiali d'oro, mi fissa come se vedesse in me un pazzo o, almeno, un essere eccezionale, unico. Ed è soltanto dopo un lungo silenzio che finalmente esclama adagio: « Questa è la prima volta in nove anni che qualcuno mi chiede di raderlo ». « Va bene, e con questo? Che cosa c'entra? Perché non mi potete radere? ». « No, è impossibile. Una volta, molti anni fa, quando ero giovane, sapevo fare la barba benissimo. Ma ormai ho perso l'abitudine, l'esercizio. Non sono più capace. Mi metterebbe in uno stato di nervosismo, che non sarei in grado di controllare. Avrei paura di tagliarvi, e certamente vi taglierei ». Ricordo, verso il principio degli Anni Trenta, i barbieri di New York, Philadelphia, Chicago, Washington. Enormi botteghe con dozzine di lavoranti. Sfolgorio di luci, cristalli, maioliche, nichel. Armonioso cantar dei rasoi tutto intorno, e allegro schioccar delle « lame libere », mentre vigorosamente vengono affilate sulle ben tese, larghe corregge di cuoio. Dolce manovrar delle alte poltrone idraulicamente frenabili, e trasformabili ora in deliziosi letti chirurgici per incruente operazioni ora in troni sognanti di momentanea maestà. E fumare bianco di hot towels, asciugamani umidi, bollenti, profumati, copiosi, fitti, familiari e soavi come la chiacchiera stessa dei barbieri, che molcevano giocosamente di futilità, col loro slang siculoamericano, l'asprezza mattutina e conciliavano, così, con il destino lavorativo della giornata. Abilissimi anche nella chiacchiera, come nella tecnica del mestiere, i siculi americani erano in grande maggioranza, e originari di Messina, cioè i migliori barbieri del mondo. Tutto questo non esiste più, in nessuna delle grandi o piccole città degli Stati Uniti: neppure a New York: dove, adesso, ho vissuto l'ultimo mese del mio soggiorno americano, costretto ad affrontare, anche là, il fastidio, la noia, la solitaria e solipsistica tristezza, insomma la barbarie di dovermi radere da me, e di vedermi negato quell'umile lusso quotidiano che il più povero bracciante si può permettere in qualunque villaggio delle Puglie, dove su quattro botteghe una è sempre un « Salone ». Certo, in America, impegnandosi, ostinandosi, scom¬ gmettendo, uno riesce ancora a farsi radere da un barbiere. Però, deve: primo, pagare un prezzo ridicolmente esagerato, perché il tempo di una barba non è trop- po più breve del tempo di un taglio di capelli, specialmente come li tagliano oggi, che appena li aggiustano; secondo, perdere ogni volta un paio d'ore nell'attesa anche quando ha l'appuntamento, perché c'è quasi sempre un solo lavorante; terzo, rassegnarsi a una rasatura sommaria, superficiale, e oltre tutto sgradevole perché l'arte è ormai dimenticata: le dita della sinistra, invece di sfiorare la pelle con i polpastrelli, la lavorano come una pasta, sì, come se facessero la pizza, non la barba. Sul trionfo dei rasoi di sicurezza ed elettrici si potrebbe scrivere un saggio, dimostrando facilmente che anche codeste invenzioni fanno parte della crescente degradazione civile a cui condanna la civiltà dei consumi. E' vero, radendosi da sé e adoperando le macchine, si guadagna tempo e si risparmia denaro, ma si perde qualcosa che vale infinitamente di più: la ricchezza morale, la vitalità di un insostituibile rapporto umano. Il mestiere del barbiere non ha nulla di servile: il barbiere è un amico, a volte ignoto, che potrebbe come niente ucciderti e che invece ti aiuta a vivere. Corsi ! gerle; e cesserà anche il fe- i e ricorsi Gli Stati Uniti sono un grande Paese, una grandissima nazione, un impero: ma un impero senza barbieri. E verrà giorno che anche in Puglia non ci saranno più Saloni, e che i più poveri braccianti adopereranno a loro volta il rasoio elettrico. Ma quel giorno coinciderà con l'inizio di un'autentica rivoluzione culturale in America, dove certamente si tornerà ai barbieri e alle autentiche lame di Sheffield, Solingen e Toledo. Allora, in Italia, si tornerà, per entrare, a tirare le porte. E in America si comincerà finalmente a spin- nomeno della disoccupazione: ho calcolato, infatti, che, una volta tramontata la civiltà del rasoio elettrico e di sicurezza, la cifra dei barbieri attivi negli Stati Uniti salirebbe almeno a due milioni e cinquecentomila. Mario Soldati New York, 25 ottobre 1957. Un famoso salone da parrucchiere: quello dove fu ucciso il gangster Albert Anastasia (Tel.)

Persone citate: Albert Anastasia, Barber Shop, Mario Soldati, Sheffield