Il destino d'Israele di Nicola Adelfì

Il destino d'Israele OLTRE LA GUERRA Il destino d'Israele In questi giorni di amarezza e di sconforto per la persistente sconfitta della ragione, di continuo tornano ad affollarsi nella mente i ricordi dei luoghi e degli uomini mediorientali visitati prima o dopo una guerra. Di quei viaggi mi restano taccuini pieni zeppi di appunti e di indirizzi, molti libri, i discorsi con beduini o fedayn, con uomini di Stato arabi e israeliani. Un gran materiale; ma poi, se da tutto quel mucchio di idee e di immagini cerco di filtrare le cose essenziali, mi accorgo che sono drammaticamente poche e semplici, sempre le stesse, verghe di acciaio non corrose dal tempo. Con i suoi 20 mila chilometri quadrati, Israele è grande come una regione media italiana, per esempio le Puglie; e invece i Paesi arabi si estendono su una superficie di 13 milioni di chilometri quadrati, tre milioni più di tutta l'Europa, dall'Oceano Atlantico a quello Indiano. Gli arabi sono 120 milioni, gli ebrei d'Israele tre milioni. Il 60 per cento delle riserve di petrolio accertate nel 1972 si trova in Paesi arabi; e viceversa quasi insignificanti sono le risorse naturali di Israele. Se si eccettua l'America, tutti i Paesi del mondo o parteggiano apertamente per gli arabi, come l'Unione Sovietica e la Cina, la Francia o la Jugoslavia o la Spagna, oppure tengono un atteggiamento di cauta benevolenza, soprattutto a causa del petrolio. Con un rapporto di forze così sproporzionato, il fatto che lo Stato di Israele continui a esistere appare un controsenso o, se preferite, un miracolo permanente. Tra il 1948 e il 1967 gli arabi hanno conosciuto l'onta di sconfitte disastrose nel corso di tre guerre, ma non si sono mai rassegnati, e ora d nuovo stanno tentando di sommergere la piccola isola ebrea formatasi nel loro sconfinato oceano. Era prevedibile; prima o poi doveva avvenire. Gli arabi stanno sempre a guardare al passato, alle guerre perdute, e sembrano incapaci di volgersi verso un futuro dove sia presente lo Stato d'Israele, e di costruirlo insieme sulla pace, mirando al comune progresso economico e civile. La loro è una specie di ipnosi: distruggere Israele, costi quel che costi. L'idea ossessiva della guerra rende i Paesi arabi sempre più poveri, sempre più tirannici, ma non riescono a liberarsene. Se un giorno potessero impadronirsi del piccolo territorio israeliano, non per questo gli arabi sarebbero meno miseri o meno tormentati da reciproci sospetti e rivalità; eppure vivono e vibrano del pensiero di ghermire per la gola il nemico e annegarlo nel Mediterraneo. Perciò, quali che siano le sorti della guerra in corso, per il momento è inutile stare a parlare di pace vera, duratura. Non esiste un deus ex machina capace di porsi come arbitro tra le parti in lotta, e che possa fissare decisioni definitive, pacificatrici. Anche se l'America e la Russia riuscissero a mettersi d'accordo, non avrebbero poi i mezzi per imporre un diktat agli arabi e agli israeliani. II quadro è deprimente, ma è l'unico realistico. Passano i decenni, cambiano i regimi e gli uomini, ma gli elementi principali e sostanziali del quadro restano sempre gli stessi. Il « rivoluzionario » Nasser fu costretto a battere la stessa via del monarca feudale Faruk; e anche dopo la guerra dei sei giorni, quando si dimise e subito la passione popolare lo rimise al potere, Nasser non potè fare altro che riprendere gli stessi motivi di prima: la guerra e lo sterminio di Israele. Morto Nasser, molti hanno fatto credito alla moderazione di Sadat, ma a un certo momento anche lui è stato trascinato sulla medesima via: la guerra, sempre la guerra. Forse l'astuto Sadat non la voleva, ma se si fosse tirato indietro, inevitabilmente sarebbe stato cacciato via: a furore di popolo, da una congiura tra giovani ufficiali, da altri capi che aspirano a unificare e guidare la nazione araba facendo leva sul fanatismo antiebraico; per esempio il libico Gheddafi. Da parte sua lo Stato d'Israele può fare molte concessioni, fuorché due: il diritto a esistere come nazione e il riconoscimento di frontiere sicure. Poiché non si è fatto mai illusioni sulla sincera disponibilità dei governi arabi a trattare su queste basi, Israele ha ritenuto che fosse un'esigenza -vitale tenevifr*Ie"regioTit-occu-pate nella guerra del 1967. Prima di quella guerra, in alcuni tratti il suo territorio ave- vuunrsdtsdtrcgzclHlbbsntptllsogcpgssmsvsc v? una larghezza di appena una decina di chilometri: da una parte stavano le armate nemiche, dall'altra il Mediterraneo. Bastava una improvvisa spallata per spezzare e mandare in frantumi il piccolo Stato rivierasco. Era un pericolo di morte sempre imminente. La striscia di Gaza s'incuneava ben dentro il territorio di Israele, arrivava a una cinquantina di chilometri da Tel Aviv ed era gremita di forze armate egiziane; nella Cisgiordania, a poca distanza da Gaza, sostava l'ottima Legione Araba di re Hussein; dalle alture del Golan le divisioni siriane incombevano sulla Galilea. E' un brutto vivere quando si sente sulla nuca il fiato caldo di un nemico fanatico, giorno e notte, per anni e anni. Si ha sempre il timore di essere addentati e scannati d'un tratto, all'improvviso. Gli israeliani perciò, dopo la guerra del '67, nemmeno stavano a sentire gli egiziani o i sovietici quando gli ingiungevano di ritirarsi nei vecchi confini, e in aggiunta di fare posto a due milioni di profughi palestinesi; e tutto questo senza una contropartita, ma solo come premessa per cominciare — chi sa quando, chi sa dove, chi sa con quali garanzie — le trattative di pace. Quando ne accennavo a Tel Aviv o a Gerusalemme, subito vedevo affiorare espressioni di sarcasmo. Una volta un ministro mi disse: « Benissimo, noi ci ritiriamo dentro le vecchie frontiere portandoci dietro una quinta colonna di due milioni di palestinesi, e gli arabi tornano ad assediarci esattamente da vicino come prima, col proposito di buttarci a mare non appena si sentiranno abbastanza forti per farlo. Lei, al posto nostro, direbbe di sì? ». « Ma l'Onu, ma l'America e la Russia potrebbero darvi buone garanzie... ». « Quali? A parte che i loro interessi non coincidono con i nostri, stia certo che l'America non scatenerebbe una guerra nucleare per tre milioni di ebrei ». Sono queste le dure realtà che riducono a poca cosa il campo delle iniziative diplomatiche. Perciò a una guerra ne segue un'altra. Israele finora ha vinto sempre, ma chi ne è uscita a brandelli è stata sempre la pace. Probabilmente sarà così anche questa volta. Per fiorire la pace ha bisogno di respirare l'aria della ragione; ed invece nel Medio Oriente si aggrovigliano confusamente contrastanti interessi nazionali, strutture feudali e parvenze socialiste, il petrolio e il Corano, intolleranza e passioni brucianti. Per spazzare via o quanto meno mettere ordine in tutto questo coacervo di cose spurie, alcune persino buone ma spesso inconciliabili con le altre, occorrono tempo e ragionevolezza. Per conto mio, temo che le nuove e grandi cataste di giovani cadaveri non basteranno a indurre i semiti arabi e i semiti ebrei, uomini dunque di uno stesso sangue, a incamminarsi su una via opposta, quella dettata dalla ragione, la via della pace. Tutto ciò è molto avvilente. Lo è in modo particolare per quanti, come me, sono convinti che il trapianto dello Stato d'Israele nel Medio Oriente, se non fosse più contrastato dalle forze arabe di rigetto, finirebbe col dotare quella parte del mondo di un cuore nuovo e giovane; e che allora, solo allora, la nazione araba, finalmente liberai i dalla droga dell'odio e dall'ipnosi della guerra vendicatrice, potrebbe tirarsi fuori dall'attuale arretratezza economica, sociale, politica, e in definitiva vivere meglio sotto tutti gli aspetti; in pace con gli altri e soprattutto con se stessa. Nicola Adelfì

Persone citate: Faruk, Gheddafi, Golan, Nasser, Sadat