Come passò di colpo alla notorietà ruomo che fucilò Mussolini nel '45 di Vittorio Gorresio

Come passò di colpo alla notorietà ruomo che fucilò Mussolini nel '45 La scomparsa dell'ex partigiano "colonnello Valerio 99 Come passò di colpo alla notorietà ruomo che fucilò Mussolini nel '45 Walter Audisio, al quale il Comitato di Liberazione Alta Italia assegnò il compito di eseguire la sentenza contro il "duce", è morto a Roma a 64 anni - Ragioniere della "Borsalino" di Alessandria, nel 1934 fu condannato al confino per aver scritto sulla scheda elettorale: "Liberate Gramsci, capo del pei" Roma, 12 ottobre. Il nome del giustiziere di Mussolini rimase per due anni ignoto agli italiani, dopo l'esecuzione a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945. Si parlò, infatti, sino al marzo 1947 di un colonnello Valerio, capo partigiano comunista, che aveva compiuto un'alta opera di giustizia deliberata dal Cln dell'Alta Italia; ma il suo nome vero, anagrafico, era conosciuto da pochi. «Valerio» in quei due anni visse modestamente come funzionario di second'ordine del partito comunista, e nella vita privata sembrava essere un grigio brav'uomo metodico, attaccato alla famiglia, al lavoro, ai piccoli piaceri dell'esistenza, che divideva con la moglie Ernestina in un appartamentino mobiliato in un quartiere periferico romano. Spesso il partito lo spediva in provincia per ispezioni, ed egli vi andava riservato, sfuggendo alla notorietà. Agli stessi compagni delle sezioni provinciali non rivelava la sua impresa; il partito lo aveva vincolato al segreto, e il ragionicr Audisio, se doveva parlare del suo passato politico, si limitava a raccontare episodi minori, di quelli che appartengono alla biografia di un qualunque antifascista di secondaria schiera: «Quando feci il servizio militare come sottotenente di complemento di fanteria, aveva trovato il modo di non fare il saluto romano. Se mi presentavo ad un superiore in un ambiente chiuso tenevo il berretto con una mano e con l'altra la sciabola. Perciò facevo un inchino». Non era una grande storia. Di poco più emozionante quella del suo confino. Nel 1934, in primavera, si tennero in Italia le ultime elezioni politiche finte, per il considdetto plebiscito. Audisio incollò sulla sua scheda un cartellino: «Liberate Antonio Gramsci, capo del pei». Gramsci era detenuto nel penitenziario di Turi, presso Bari, ammalato grave. Non si sa come, la polizia riuscì a scoprire che il cartellino era di pugno di Audisio Walter, ragioniere presso la ditta Borsalino di Alessandria; lo arrestò, gli inflisse cinque anni di confino da scontare nell'isola di Ponza. «Tutto sommato, raccontava Audisio ai compagni, non fu un brutto perioda, né triste. Conobbi allora Terracini, Secchia, Scoccìmarro, Li Causi e tonfaitri compagni. Terracini era molto deperito, soffriva di fortissime emicranie gli feci per mesi delle iniezioni ricostituenti, e Terracini se ne ricorda ancora, e me Io dice sempre, tutte le volte che lo vedo. Ma con chi aveva più intimità, era Secchia. Ci siamo sempre intesi benissimo e lo aiutavo a preparare i quaderni politici. Poi insegnavo ai compagni ragioneria e tattica militare, due materie che ho sempre coltivato. In tutte le ditte dove ho lavorato, ho portato sempre ogni possibile innovazione contabile». Questo era l'Audisio che i compagni di base conoscevano in tempi in cui la sua notorietà non superava una cerchia ristretta. La rivelazione venne improvvisa per un'indiscrezione ottenuta ai primi del 1947, dall'Europeo. Scoppiò come una bomba, eccitando l'Italia. Uno strano fascista, l'avvocato Vittorio Ambrosini, chiese l'incriminazione di Audisio come autore di duplice omicidio nelle persone di Benito Mussolini e Claretta Petacci; un quotidiano comunista del pomeriggio La Repubblica replicò proponendo che egli fosse decorato di medaglia d'oro al valor militare. Minacce di morte giunsero da tutte le province, a Roma corsero voci di un linciaggio che si stava preparando, di attentati dinamitardi vendicatori. Annunciato un comizio di Valerio per la mattina di domenica 23 marzo nel Supercinema di Roma, il questore Saverio Polito lo proibì non sentendosi in grado di assicurare l'ordine pubblico. Trascorse una settimana in trattative fra il partito comunista e la questura, ed il comizio finalmente fu consentito per il 30 marzo, in luogo aperto, la Basilica di Massenzio sulla via dei Fori Imperiali. Era tanta l'eccitazione di quei giorni, che la scelta fu giudicata un'imprudenza. La basilica è un luogo accidentato, pieno di vegetazione, di anfrattuosita, di ruderi, una specie di anfiteatro naturale sul clivo del Palatino, frastagliato da querce, lecci e pini marittimi. Sembra il più adatto alle imboscate, ma, per tutta la notte precedente il comizio, gli attivisti del pei vigilarono fra le mura e gli alberi. Era una brutta notte di marzo, e fu per gli attivisti un compito penoso; la mattina, arrivando, gli agenti della Cele- re li trovarono reumatizzati, ma dovettero riconoscere che un buon lavoro di sicurezza preventiva era stato già fatto. Si presidiò, comunque, tutto il Foro Romano, il Campidoglio e il Palatino, ronde percorsero gli spalti del Colosseo ed un «piccolo posto» fu stabilito sull'arco di Costantino. La tribuna da dove avrebbe parlato Valerio era stata incastrata fra due muraglioni, e rimaneva defilata al tiro da tre parti. Lo avrebbero potuto colpire soltanto di fronte, ma troppi vigilavano la folla raccolta davanti. 11 sole andava e veniva, ogni tanto una raffica di vento, talvolta qualche goccia di pioggia. I più paurosi pensavano, comunque, a come sarebbe andata a finire, guardando verso le macchie scure dei cespugli e degli alberi sui fianchi del Palatino. Comparve Audisio finalmente, a lato di Secchia, e prese posizione ridendo davanti ad un microfono. Dava le spalle ad un pilastro enorme. Gli misero in braccio due grossi mazzi di garofani, uno scarlatto, l'altro vermiglio, ed egli rispose agli applausi della folla agitando i fiori, scuotendoli vigorosamente con gesti ed aria da vincitore di una gara sportiva. Portava un basco, un impermeabile color nocciola, una cravatta a pallini bianchi su fondo rosso. Questo era, dunque, il giustiziere: il nostro Armodio aveva l'aspetto di un viaggiatore di commercio, più che di un tirannicida, l'Aristogitone italiano, al quale era toccato in sorte di eliminare gli uomini imperiali, era un corretto contabile di una fabbrica di cappelli di feltro che non aveva l'aria fosca del «petroliere» della vecchia tradizione romantica ed anarchica. Pareva che la sorte avesse voluto punire il dittatore anche della sua enfasi reto¬ rica, riservandolo ad una fine squallida, sia per l'apparato sia per l'esecutore. Costui, del resto, raccontando alla folla la sua impresa ne illegiadriva la narrazione con le facezie, le battute, le frasi fatte ed i luoghi comuni dei quali si condiscono le conversazioni dei commessi viaggiatori. Di quando in quando si lanciava pure a tentativi di imitazione delle smorfie del tiranno, per farlo apparire osceno e ! grottesco anche più del verosi- mile; e poi rideva ed ammiccava lepidamente nell'intenzione di divertire il suo pubblico. Era una mancanza di gusto, a dir poco, e anche un difetto di penetrazione psicologica, poiché lo spettacolo che egli inscenava non era quello che la folla — tutta di veri antifascisti — si sarebbe aspettato dall'uomo che, per ordine del Comitato di liberazione nazionale, aveva eseguito una sentenza del popolo italiano. Egli purtroppo rendeva volgare un episodio che alla storia avrebbe dovuto essere consegnato in tutto il suo valore drammatico. Era stato il brusco passaggio dall'anonimato all'improvvisa notorietà a distruggere il fragile equilibrio in cui Valerio aveva vissuto dopo l'esecuzione della missione affidatagli. Si era cercato di proteggergli l'incognito in molte maniere. Cadorna racconta che gli avevano anche cambiato il nome di battaglia, da colonnello Valerio in colonnello Bagnoli, e testimonia che nei giorni successivi alla Liberazione egli rese preziosi servizi alla causa dell'ordine e della legalità. Nel placare turbolenze, dirimere vertenze e risolvere situazioni critiche, Valerio — alias Bagnoli — « dimostrò obiettività e autorevolezza, ottenendo risultati che nessun altro avrebbe conseguito, segnatamente a Sesto San Giovanni e alla " Riva " », ricorda il comandante generale de! Corpo volontari della libertà. Proiettato di colpo sulla scena nazionale, la notorietà gli riusciva pesante: « Avrei preferito vivere come prima », diceva Audisio, lamentandosi che non avrebbe più potuto dedicarsi, come un tempo, al lavoro. Il partito, ora che l'uomo era divenuto troppo famoso perché si potesse continuare a tenerlo ridotto alle mansioni di modesto funzionario, lo fece eleggere deputato tre volte, nel '48, nel '53, nel '58. Di quinquennio in quinquennio diminuirono, però, i voti preferenziali andati al suo nome: da oltre 67 mila della prima volta, ai 20 mila della terza. Impallidiva la sua stella di protagonista della storia, ed anche nella sua attività di deputato passò da compiti altamente politici (commissione per gli Affari interni) ad altri scoloriti e più tecnici — Agricoltura e Foreste, Finanze e Tesoro — ciò che era, del resto, nella sua giovanile vocazione di studioso di « ogni possibile innovazione contabile » nelle aziende per le quali lavorava. Vittorio Gorresio Walter Audisio, detto il "colonnello Valerio", in una foto di ventisei anni fa