Fra i soldati d'Israele

Fra i soldati d'Israele Fra i soldati d'Israele Inferiori di numero, sanno di dover contare soltanto su una superiore efficienza tecnica: gruppi di militari semplici frequentavano, ancora pochi giorni fa, l'istituto scientifico Weizmann - Hanno grande fiducia in Dayan, che continua ad essere un nome prestigioso - Lo attorniano i generali più giovani del mondo: tra questi Elazar, che nel '67 conquistò il Golan Mi trovavo a Rehovot (un lontano sobborgo di Tel Aviv) in visita al «Chaim Weizmann», il centro di ricerche scientifiche più prestigioso di Israele, confrontabile per importanza soltanto con l'Institute for Advanced Studies di Princeton, negli Stati Uniti, dove i premi Nobel si sprecano. Ci offrirono la colazione nei locali del Laboratorio per le osservazioni geofisiche: qui tutti, professori e studenti, si arrangiano da soli, con un selfservice esemplare, facendo la fila. Ma a noi, giornalisti stranieri ospiti per un breve viaggio informativo, vollero fare un onore particolare, e fummo serviti a mensa. Discorsi, cerimonie. Intanto passavano tra i tavoli, portando le vivande, giovanotti che non avevano né l'aspetto né i modi dei camerieri e in¬ dossavano strani pantaloni cachi, tutti uguali, con grandi tasche. «Sono militari di leva che seguono un corso speciale all'istituto — risponde alle mie domande una signorina addetta alle public relations che la buona sorte aveva fatto sedere al mio fianco — hanno chiesto loro stessi di poter essere utili». Armi e studi Questo accadeva la settimana scorsa, tre giorni prima che scoppiasse la quarta guerra .arabo-israeliana. Naturalmente il giornalista ha il dovere di essere curioso e chiesi che specie di corso seguissero quei giovanotti. «Ecco, veramente, non possiamo dir niente. Queste cose sono tutte segrete, classifìed. Posso dire soltanto che qui lavoriamo molto per il governo, e quindi anche per il ministero della Difesa». E mi chiuse la boccu. con un bel sorriso. Soldati di leva all'istituto Weizmann. Come dire una compagnia di fucilieri di fanteria all'Accademia dei Lincei, esercizi di «ordine chiuso» in un'aula di matematica superiore. Non c'e da stupire che l'esercito israeliano sia in queste condizioni il più tecnologicamente avanzato del mondo; sino dalla guerra d'indipendenza del 1948-49 hanno capito che l'unico modo di sopravvivere, di fronte alla crescente marea ostile del mondo arabo, era di essere più forti, pur essendo infinitamente meno numerosi. E' una scelta precisa, cosciente, che si vede in ogni settore della organizzazione militare: le mitragliatrici (fabbricate tutte in Israele) sono più moderne di quelle della Nato, a tiro e a caricamento più rapido, si inceppano di meno e ogni servente è addestrato a ripararle; le sentinelle dispongono di cannocchiali che vedono nell'infrarosso (e quindi nel buio, di notte) con arma abbinata a puntamento automatico e istantaneo; cibi disidratati, sterilizzati e compressi per le lunghe soste nel deserto; mezzi per telecomunicazione distribuiti non solo al livello di singolo carro armato o aereo o postazione di batteria o avamposto operativo, ma che costituiscono una rete fra «tutti» i punti militari del Paese c vengono altresì messi a disposizione delle pattuglie mobili fino al singolo soldato in esplorazione o di guardia. E così via, nelle piccole e nelle grandi cose, dai missili aria-terra e terra-terra tipo Shariff o Gabriel, dotati di testata cercante, agli aeroplani da caccia supersonici Mirage e Phantom (che non basta avere in un certo numero ma bisogna essere in grado di adoperare, puntare, rifornire, revisionare, riparare e richiedono quindi un costante «servizio d'appoggio a terra» che da solo esige una schiera di tecnici non improvvisata) ai caccia-bombardieri Skyhawk, i «falchi del cielo» che, pur relativamente antiquati, si stanno rivelando, ogni giorno, più efficaci degli apparecchi d'assalto di costruzione sovietica contrapposti dai siriani, fino alle motovedette veloci Sahar (quelle che, nella guerra dei «sei giorni», hanno distrutto per errore un cacciatorpediniere statunitense; ma è vano chiedere particolari ai ministeri competenti su come è andata la faccenda). Con tutte queste belle cose, resta poi sempre l'uomo a fare la guerra, con le sue incertezze e le sue speranze, con la sua sete la sua stanchezza il suo terrore, quando è solo su una terra bruciata, quando vorrebbe sprofondare sotto il suolo per gli shrapnel che esplodono tutto attorno, quando il cuore scoppia per la corsa e la trincea da raggiungere è ancora lontana e si resta nudi e scoperti fra le linee. Carne che palpita e trema fra il fuoco e l'acciaio. Anche per questa ragione, che diremmo psicologica, l'attuale ministro della Difesa, il mitico Moshe Dayan, l'uomo di cui fu detto « il suo cervello è un computer », ha respinto il suggerimento che alcuni tecnici dell'Ufficio Operazioni gli avevano rivolto, il mese scorso, di modificare il manuale d'addestramento per gli ufficiali, là dove è scritto: « Il comandante d'un reparto deve essere sempre in testa agli altri ». Il primo rischio Dayan rispose, semplicemente, no. Poi aggiunse: ammetto che i subordinati del comandante stiano indietro, è giusto, le carte, i piani, gli ordini devono essere protetti. Ma il comandante, no. Chi dice a un altro « Va avanti » mentre tutt'intorno sparano, deve andare avanti lui per primo. Moshe Dayan, 57 anni, è ferito di guerra. Ha perso un occhio combattendo a fianco degli inglesi contro i francesi di Vichy, in una località fra la Galilea e la Siria, durante il secondo conflitto mondiale, mentre osservava da un avamposto le posizioni nemiche. La pallottola è entrata « dentro » il cannocchiale di marina che teneva appoggiato all'occhio ed è penetrata attraversando le due lenti lungo tutto il tubo, un caso su mille milioni. Pochi mesi dopo, fu ferito leggermente una seconda volta e venne quindi incarcerato dagli inglesi nelle « giornate calde » dell'immigrazione clandestina e del terrorismo delle organizzazioni Irgun Zvai Leumi e Stern. E' certo l'uomo intellettualmente più capace di Israele e gode di una stima incondizionata anche da parte dei suoi avversari politici, Dio sa se sono pochi. Supremo organizzatore della guerra, è piuttosto scostante, mi dicono, perché si rifiuta di discutere, dice soltanto « Si fa così e così » e tutti gli altri « Sissignore ». E' anche bizzoso, e non ama concedere interviste. Per un giornalista è un peccato mortale. Ma tutti lo stimano come un grandissimo soldato, anche se taluni lo giudicano troppo « falco ». D'altra parte è stato lui a imporre la cosiddetta politica dei « ponti aperti » nei confronti della Giordania, una linea dì condotta assai intelligente che permise lo sviluppo del commercio fra i due Paesi, il libero scambio di uomini e merci, una più | ampia comprensione. i L'uomo che al suo fianco, durante il 1967, guidò in qua- i lità di capo di Stato Mag- \ giore la fulminea offensiva \ dei «sei giorni», Izhak Rabin, è oggi fuori gioco. Si trova a Washington come ambasciatore d'Israele. Subito alla fine della guerra, era andato in pensione e lasciò le forze armate. Aveva, allora, quarantacinque anni. Perché ì generali d'Israele sono i più giovani del mondo. Fatto piuttosto strano, se si considera che invece i capi politici di Tel Aviv sono forse i più anziani dell'intera scena internazionale (Golda Meir ha 75 anni e i suoi collaboratori poco meno). Il capo di Stato Maggiore, David Elazar, ha 48 anni; sarebbe già dovuto entrare nella riserva, allorché compì i 45 anni d'età, ma per lui è stata fatta un'eccezione dopo un accanito dibattito alla Knesset. E' nato a Sarajevo, in Jugoslavia, da genitori strettamente ortodossi; venuto in Israele con la «Aliya» del 1938, durante la guerra del '56 conquistò, alla testa dei suoi reparti, l'«enclave» di Gaza. Nel '61 venne nominato comandante del frente Nord; con questo incarico, nel 1967, espugnò le alture di Golan dopo una furiosa battaglia con le forze siriane che vi si erano trincerate. Con i giovani impegnati nel servizio di leva — 36 mesi per l'esercito, sei anni per l'aviazione, 20 mesi per le ragazze, adibite quest'ultime essenzialmente alle attività ausiliarie ma tenute ad addestrarsi anche nella pratica delle armi; tutti gli uomini della riserva sono richiamati un mese ogni anno per istruzioni — non posso dire di aver avuto, nei giorni scorsi, lunghi contatti diretti. Ma sono stato in un loro accampamento, non lontano da Hebron nella zona «amministrata» a Sud di Gerusalemme, li ho visti al rancio, ho assistito alla libera uscita. mentre si avviavano a picco li gruppi lungo la strada per ottenere un passaggio: l'au tostop (qui un'automobile paga una «tassa d'ingresso» pari al duecento per cento del prezzo d'acquisto) è un dovere da tutti riconosciuto nei confronti dei militari che vanno a casa dopo il servizio. Era ancora pace, in quei giorni. Li ho visti, fuori del servizio, parlare con gli ufficiali con una familiarità da noi impensabile, senza alcun obbligo di saluto ma nello stesso tempo senza faciloneria o strafottenza. Li ho sentiti impegnati a discutere su come ci si debba comportare di fronte agli arabi, alle donne arabe, ai contadini. E ho capito che Israele non possiede un esercito. Questo piccolo Paese, tre milioni di abitanti, è tutto un esercito, uomini e donne, giovani e anziani, venuti in questa terra da tutto il mondo dopo infinite traversie. Ora la «Yeshuv», la comunità di Terra Santa, si trova a dover sostenere la lotta più spietata e aspra di tutta la sua esistenza. Umberto Oddone