Le massaie "in sciopero" comprano meno bistecche

Le massaie "in sciopero" comprano meno bistecche Per protesta contro il caro-carne Le massaie "in sciopero" comprano meno bistecche Nessuna manifestazione clamorosa in Italia (a differenza degli Usa) : solo una diminuzione "secca" di un quinto nei consumi di carne bovina - Le cattive abitudini degli italiani, la rete distributiva, la politica zootecnica all'Eurocarne di Verona (Dal nostro inviato speciale) Verona, 4 ottobre. La massaia italiana ha deciso di scioperare contro i prezzi della carne. Non lo fa, come la sua collega americana, in modo clamoroso, scendendo per le strade con cartelli e mandando delegazioni in prefettura. Protesta in una maniera più silenziosa, ma anche più pratica: compera meno bistecche. Negli ultimi dodici mesi il consumo di carne bovina è diminuito di circa un quinto, ciò vuol dire che da 23-24 chili a testa si è scesi a circa 20 chili. Contestazioni E' questo il dato più interessante emerso a Verona, dove stamane è stata aperta — senza l'inaugurazione ufficiale per timore di contestazioni — la quinta edizione dell'Euro carne. La manifestazione presenta 1200 bovini, 500 cavalli di razza, centinaia di polli, conigli, colombi. C'è un salone per le macchine e le attrezzature necessarie alla lavorazione delle carni, alla catena del freddo, ai trasporti. Sono presenti ufficialmente venti Paesi (tra cui Stati Uniti, Irlanda, Polonia, Francia, Colombia, Bulgaria), altre nazioni espongono attraverso i loro rappresentanti commerciali, come la Cina che presenta a Verona le rane congelate. La grave carenza di carne bovina e i suoi prezzi elevatissimi sono stati gli argomenti dibattuti nella prima manifestazione organizzata a fianco dell'Eurocarne, una tavola rotonda sui problemi dell'approvvigionamento, proposta da una delle quattro organizzazioni di importatori, la Anicobeca. E' stato il segretario generale, dottor Filippo Sassetti, a denunciare il forte calo nei consumi di carne bovina. A questo fenomeno se ne aggiunge un altro, ugualmente significativo: rispetto a un anno fa i prezzi della carne bovina sono diminuiti del 15 per cento all'ingrosso. Perché — viene spontanea la domanda — non c'è stato un ribasso anche al dettaglio? Indirettamente, la risposta l'ha data il dottor Fulvio Mecatti, vicedirettore del servizio alimentare della Standa: per 54 milioni e mezzo di italiani, esistono oltre 75 mila negozi di macelleria, ciascuno dei quali in media non vende più di 57 chili di carne al giorno. Troppo poco. Se la diminuzione dei prezzi all'ingrosso non ha avuto ripercussioni al dettaglio, la colpa è soprattutto del nostro arcaico sistema di distribuzione: tanto farraginoso che su 800 lire di margine che i macellai hanno per ogni chilo di carne venduto, 600 sono assorbite dalle spese di gestione. Sulle cifre si è aperta una polemica, perché gli importatori si sentono ingiustamente accusati di essere speculatori, «affamatori del popolo», mentre invece essi ritengono di svolgere un servizio utile per il Paese; e in questo momento di penuria di carne c'è da dire che senza massicci acquisti dall'estero la bistecca sarebbe stata venduta con la tessera. Inoltre, gli importatori affermano che il loro margine non arriva al 5 per cento, il che, tradotto in cifre, equivale a 65-67 lire per ogni chilo di carne commerciata. In Italia, l'87 per cento della carne bovina viene venduta attraverso le macellerie e solo il 13 per cento nei supermercati, dove i prezzi sono leggermente più contenuti. Il dottor Mecatti, della Standa, ha precisato che la contrazione dei consumi manifestatasi per la carne bovina nelle macellerie non ha toccato la grande distribuzione: questa è la conseguenza della politica dei prezzi nei grandi magazzini, i quali considerano il reparto macelleria un servizio per il cliente, non un settore remunerativo. Crisi zootecnica La scarsità di carne bovina non è un fenomeno solo italiano, né soltanto europeo: esso investe tutti i Paesi del mondo, dove i tradizionali esportatori (come Argentina, Polonia, Uruguay) hanno meno merce da vendere per l'incremento dei consumi interni, mentre sul mercato internazionale si affacciano nuove nazioni affamate di carne, come il Giappone e la Spagna. Il problema della bistecca va quindi risolto con un incremento della produzione zootecnica, che in Italia investe problemi non solo economici, ma anche politici, da risolversi nell'ambito comunitario, Ma anche il consumatore deve difendersi, orientandosi verso carni diverse da quella bovina, per le quali oggi esistono ancora ingiustificate diffidenze. Ad esempio la carne suina — ne ha parlato al convegno il dottor Francesco Lucidi, funzionario della Cee il cui consumo nella Comunità è progredito (da 29 chili prò capite nel '66 a 34,4 nel '72) senza tuttavia creare squilibri nell'approvvigionamento. Ci sono poi le carni di coniglio e di pollo, con le quali stiamo prendendo confidenza, mantenendoci tuttavia ben lontani dalle medie dei consumi comunitari. Eppure i suini, i polli, i conigli e anche i tacchini, potrebbero benissimo sostituire sulle nostre mense quella bistecca che si compera a peso d'oro e che a volte — quando proviene da un animale da carne bianca, il famoso vitello da latte — nutre meno di una coscia di pollo o di una braciola di maiale. Consumando meno carne bovina diminuirebbe anche quel pauroso deficit di oltre tre miliardi di lire al giorno, che dobbiamo spendere per le importazioni. Il dott. Sassetti, con arguzia polemica, ha affermato che è inutile piangere su questo salasso, è inutile scandalizzarsi e prendersela con gli importatori: essi sono soltanto degli imprenditori che lavorano e impiegano capitali per trarne, ovviamente, un utile. E in questo momento sono al centro di una bufera che non è stata provocata da loro. E' il governo, ha ag¬ giunto Sassetti, che ha fatto una scelta politica sbagliata («Industria sì. agricoltura no»), e adesso tutti ne sopportiamo le conseguenze. A proposito dei tre miliardi che spendiamo ogni giorno per la carne, un giornale economico alcuni giorni fa pubblicava un interessante studio: il valore delle importazioni di carne supera quello complessivo delle esportazioni dell'industria chimica, delle fibre sintetiche, dell'industria della gomma e delle macchine utensili; il valore delle importazioni di olio d'oliva e di grassi alimentari è appena coperto dal saldo attivo dell'industria automobilistica. In sostanza il deficit alimentare annulla i risultati di una industrializzazione disarmonica. Protezionismo In attesa che il governo e la Cee — verso la quale sono state lanciate dure accuse per aver condotto una errata politica di protezionismo — trovino una nuova linea per la zootecnia, bisognerebbe che i nostri allevatori tenessero presente nella loro mente un prontuario presentato dagli organizzatori dell'«Eurocarne», nel quale, con la collaborazione dell'istituto di zootec¬ nia dell'Università di Padova, sono state raffrontate la produzione di carne e l'utilizzazione dei foraggi secondo le varie specie animali. Lo studio mette in rilievo che una scrofa produce in un anno 868,5 chili di carne, una tacchina 274,5, una gallina 104,8, una vacca 86,3 se si allevano vitelli da latte, 151,2 se si macellano vitelloni. E' chiaro che c'è una bella differenza tra l'ottenere 104 chili di carne da una gallina o 151 da una vacca. Riguardo ai foraggi i dati sono questi: per produrre cento chili di carne (peso vivo) di pollo occorrono 292 unità foraggere (l'unità foraggera è l'unità di misura con cui si calcola il rapporto tra foraggio e carne), tacchino 387, coniglio 394, suini 429, vitelli 1045, agnellone 1130, vitellone da latte 1322, agnellone da latte addirittura 2430. Forse gli agricoltori hanno già compreso la convenienza di allevare polli anziché vitelli, ma bisogna che se ne renda conto anche il consumatore, altrimenti si arriva alla crisi di super produzione, come è accaduto la scorsa settimana con i polli, venduti all'ingrosso a 230 lire il chilo quando il costo di produzione è almeno il doppio. Livio Burato

Persone citate: Filippo Sassetti, Francesco Lucidi, Fulvio Mecatti, Livio Burato, Sassetti