Diplomatico in prima linea

Diplomatico in prima linea La morte di Giovanni D'Orlandi, ambasciatore ad Atene Diplomatico in prima linea Lo scomparso capo-missione resse l'ambasciata italiana a Saigon negli anni più tormentati della tragedia vietnamita - Godeva di grande prestigio, e nel giugno del '66 fu nel suo ufficio che i nordvietnamiti, attraverso il delegato polacco in Sudvietnam, portarono un'offerta di pace - Lasciò quella sede per motivi di salute Questo articolo di un esperto italiano di politica internazionale rievoca la figura dell'ambasciatore Giovanni D'Orlandi, morto la scorsa settimana ad Atene, dove rappresentava il nostro Paese. L'articolo ricorda una fase particolarmente drammatica della storia diplomatica degli ultimi anni. Saigon, agosto 1963. Il regime di Diem, battuto nelle risaie dai guerriglieri del Fronte di Liberazione, cerca un folle diversivo interno proclamando la legge marziale, assaltando le pagode, arrestando monaci buddisti e studenti. Nel contempo tenta di estendere ai telegrammi trasmessi per posta dalle ambasciate la censura vigente nel resto del Paese. Il nostro ambasciatore è Giovanni D'Orlandi, il più giovane capo missione d'Italia e uno dei più giovani a Saigon, dov'è arrivato da un anno. E' uno studioso di diplomazia — ha insegnato qualche anno prima all'Università Johns Hopkins a Bologna la «condotta degli affari esteri» — ma questa situazione non è prevista in nessun manuale. E del resto la convocazione del corpo diplomatico, da lui richiesta, si rivela inconcludente: molte ambasciate hanno la radio e si ridono della censura vietnamita; altre sono, come D'Orlandi, senza istruzioni per l'interruzione stessa dei telegrammi. D'Orlandi dovrà agire da solo: e non ha esitazioni. Fa sapere al ministero degli Esteri locale che entro 36 ore, se non avrà ricevuto ampie scuse nonché la consegna e l'inoltro dei telegrammi giacenti e l'assicurazione che il fatto non si sarebbe ripetuto, trasferirà la sua ambasciata, armi e bagagli, in Cambogia, dove pure è accreditato come ambasciatore e dove non avrà difficoltà per i telegrammi. Assicurazioni E' un ultimatum da nessuno autorizzato, date le circostanze. D'Orlandi trova modo di ripeterlo in pubblico, davanti agli altri diplomatici, a un allibito segretario generale degli Esteri vietnamita, in modo che non vi siano dubbi sulla sua serietà. Va a visitarlo un emissario vietnamita offrendo assicurazioni che la pratica viene studiata; D'Orlandi si fa trovare in mezzo alle valigie e ripete la scadenza e le condizioni: le scuse (per iscritto, aggiunge), i telegrammi, l'assicurazione. Prima della scadenza arrivano le scuse scritte, il pacco dei telegrammi, l'assicurazione richiesta, e la conferma da Roma dell'arrivo dei telegrammi in partenza. L'episodio dei telegrammi fa balzare in primo piano la figura di D'Orlandi sulla scena politica e diplomatica di Saigon. Chi nota subito l'ambasciatore d'Italia come uno dei meglio informati e più attivi nella intricata vicenda vietnamita è il nuovo ambasciatore americano Cabot Lodge. Con lui e con il delegato apostolico mons. Asta, D'Orlandi tiene, nel settembre e nell'ottobre 1963, una serie febbrile di consultazioni e di incontri. Lo scopo: cercare una soluzione «Diem senza Nhu», costringere il Presidente vietnamita a liberarsi del suo tenebroso fratello e consigliere, ispiratore dei colpi di testa contro i buddisti, e della bella e invadente moglie di lui, Diem promette di esiliare la coppia Nhu. Ma poi non mantiene. Nhu ha troppo ascendente sul fratello, e lo convince ad annullare l'ordine di esilio. Egli suggella così il suo destino e quello del fratello, giacché gli americani, ritenendo (secondo le rivelazioni dei documenti del Pentagono), che un regime più popolare avrebbe condotto meglio la guerra, decidono di non opporsi al colpo di Stato. 11 tentativo di «Diem senza Nhu» non è riuscito, ma l'amicizia con Cabot Lodge è cementata, e resterà un punto fermo dell'attività vietnamita di D'Orlandi. Novembre '63 Si va, quindi, al colpo di Stato del primo novembre 1963. Appena i carri armati degli insorti circondano il palazzo presidenziale, ben tre ministri in carica bussano alla porta di D'Orlandi chiedendo asilo politico. «L'asilo politico non esiste nella prassi diplomatica vietnamita o italiana», risponde D'Orlandi, «ma posso sempre invitarvi a cena». I ministri restano suoi ospiti per cena, colazione, pranzo, e così via, mentre lui prende cautamente contatto coi nuovi governanti. Dopo qualche giorno, i tre ormai ex ministri tornano a casa indisturbati. Anche questo episodio fece il giro di Saigon. E a ciascuno dei nove colpi di Stato successivi D'Orlandi ricevette richieste di ospitalità da un vasto assortimento di ministri, generali, funzionari e capi della polizia. Chiunque avesse una pubblica carica « coltivata » l'ambasciatore d'Italia con lo spirito del fattore infedele. Tutto questo è ben noto quando, il 27 giugno 1966, il delegato polacco a Saigon, janusz Lewandowski, entra nell'ufficio di D'Orlandi e gli propone, a nome del Politburo nordvietnamita, un'offerta di pace. Lewandowski — e Hanoi — cercano a Saigon i buoni uffici dell'Italia. Giocano in questa scelta la politica del governo italiano (Fanfani era allora ministro degli Esteri e presidente dell'Assemblea dell'Onu), la generosa iniziativa di La Pira del novembre precedente, ma anche, sicuramente, la considerazione e il rispetto di cui è circondato D'Orlandi (di-1 venuto nel frattempo decano del corpo diplomatico) e la sua { amicizia con Cabot Lodge. Nell'estate del 1966 la guerra ] del Vietnam si trascinava con ; grandi e inconcludenti operazio-1 ni di rastrellamento al Sud (dov'erano ormai 280 mila soldati americani) e altrettanto inconeludenti bombardamenti ameri- j cani al Nord. 11 Vietnam del Nord, fino ad allora poco impegnato direttamente, cominciava a sentire il peso della guerra. Di qui, forse, l'iniziativa del Politburo, non condizionata, si badi, alla preventiva cessazione dei bombardamenti (e il dettaglio è da rilevare per l'importanza assunta successivamente da tale punto). ! \ j I j Senso politico L'apertura di Lewandowski andava però chiarita nel suo contenuto, calata in precisi termini diplomatici, articolata in una serie di principi da applicare alla situazione politico-militare vietnamita. Fu qui che, sempre appoggiato dal nostro governo, D'Orlandi diede la misura della sua acutezza, senso politico, inventiva e intelligenza. Finora, egli disse a Cabot Lodge e a Lewandowski nella prima riunione a tre. abbiamo cercato la chiave della situazione nelle grandi capitali: invece essa è qui, in Vietnam. Finora abbia- ! mo seguito un approccio progressivo, partendo da mosse quali scambi di prigionieri, riduzione delle ostilità ecc. E' chiaro che ciò non va. Rovesciamo questo approccio, guardiamo al Vietnam e al Sud-Est asiatico come saranno tra 20 anni, e torniamo indietro cercando le necessarie garanzie per tutte le parti interessale. LVesercizio di stile», la «lezione di metodo» riuscirono. All'inizio di dicembre 1966 — come è ormai noto dai documenti americani — D'Orlandi, Lewandowski e Cabot Lodge avevano redatto un documento in 10 punti, che venne approvato come base di discussione sia da Hanoi sia, con qualche riserva, da Washington. Esso delineava in nuce un accomodamento non mollo dissimile da quello che verrà poi raggiunto nel gennaio 1973. Poi vi sono i bombardamenti americani di Hanoi del dicembre, l'irrigidimento nordvietnamita, il fallimento del tentativo. I capi americani non vi credono, o forse hanno paura che quella pace possa trasformarsi in cedimento. Rimane il fatto | che l'Italia era arrivala più avanti di tutti; e D'Orlandi — ! parlano i documenti americani \ — ne esce «rispettato da ambo j le parti». La sua amarezza — non uno I scatto, o un gesto fuori posto, o j un'intervista, ma tanta amarezza — c la salute già vacillante e vieppiù minata dal clima tropicale non gl'impediranno di riannodare più tardi a Roma le fila del negoziato coi nordvietnamiti. Ma questa è un'altra storia. Ci si consenta ancora un'os- i sensazione. In un periodo in cui ] è così difficile a un diplomatico evitare un'etichetta politica o personale, D'Orlandi non ne aveva alcuna. Era un uomo veramente indipendente, lontano da\\'establishment della vecchia diplomazia, non legato a parti politiche, non inceppato da pregiudizi ideologici, immune da steccati professionali. Al di là della sua figura impassibile, sempre uguale a se stessa, anche nei momenti più appassionanti o drammatici, si muoveva una personalità di profonda umanità, di alla integrità e onestà; un uomo innamoralo di giustizia, di dignità umana e di pace, convinto che compilo del diplomatico fosse di ricercarne ovunque e costantemente le vie (e così fece negli ultimi cinque anni ad Atene), tenacemente ricostruendo, in dialogo coi colleglli stranieri, la tela di Penelope del negoziato. Con lui la diplomazia italiana ha scritto una delle sue pagine più brillanti del dopoguerra. ='.: *