Politica araba di Luigi Salvatorelli

Politica araba DA MAOMETTO AD OGGI Politica araba A rendersi conto più approfondito dell'imbroglio odierno medio-orientale gioverà la conoscenza delle tradizioni arabe in fatto di politica, risalendo ai tempi della fondazione e degli sviluppi del cosiddetto imperialismo arabo (medievale). Viene a proposito su questo argomento il libretto recentissimo, veramente prezioso, di un orientalista italiano insigne, Francesco Gabrieli: Maometto e le grandi conquiste arabe («Il Saggiatore»). Questa lettura produrrà sui non competenti specifici qualche sorpresa. Non per il contenuto propriamente religioso, che è quello noto a tutti di una credenza rigorosamente monoteistica, con degradazione del cristianesimo e soprattutto dell'ebraismo a credenza imperfetta, che tuttavia non esclude il riconoscimento di un possesso della verità fondamentale, imperfetta per le pretese aggiunte ed errori particolari (onde il nome di religioni « del Libro »). La verità integrale e completa è quella dettata come parola diretta di Dio dall'Arcangelo Gabriele a Maometto, in una serie di capitoli (le « Sure ») raccolti nel Corano. Nella predicazione di Maometto, accanto al rigoroso monoteismo abbiamo fin dall'inizio un appello (cito dal Gabrieli) « a sostituire alla forza, al culto del denaro, alla solidarietà gentilizia una trascendente diretta certezza del rapporto fra Dio e l'uomo, e una uguaglianza dei credenti in tale rapporto ». In quest'ultimo postulato del Verbo divino è contenuto, più o meno esplicitamente, un elemento sodale-politico. Ma anche sul terreno religioso l'attacco violento al politeismo colpiva la fedeltà al santuario tradizionale, la Ka'ba meccana. Né accanto alla fede puramente religiosa dell'islamismo c'erano elementi di una organizzazione sociale, di una condotta civica nuova. Si comprende quindi l'iniziale indifferenza o avversione della maggioranza. ★ ★ Nell'ambiente familiare — a cominciare dalla innamorata anziana moglie Khadigia — operò Maometto la prima raccolta di seguaci, da lui appellata islam (cioè abbandono e consacrazione ad Allah); ma ben presto passò di là ad ingrandire il nucleo primitivo con individui di provenienza diversa, prevalentemente giovani, e che non furono soltan to poveri ed infimi, ma anche largamente o moderatamente abbienti. Seguitò tuttavia a incontrarsi nella ostilità aperta e tenace della maggioranza elevata, i cui valori temporali di posizione e di ricchezza il Corano tuttavia riconosceva pienamente derivare dalla volontà di Dio, mentre nulla, per quel che sembra, trovava da opporre nella organizzazione essenziale cittadina in nome di un nuovo ideale politico e sociale. Poiché alla Mecca non riusciva a spuntarla, Maometto si decise a cercare appoggio fuori, e la sua scelta cadde su Medina (chiamata allora Yathrib). Egli riuscì — aiutato forse da una tal quale rivalità della comunità minore verso la maggiore — a prendere contatto con gruppi di Medinesi, fino a concludere con loro per due volte veri e propri accordi culminati nell'« omaggio di guerra », cioè nel riconoscimento pieno di Maometto come Profeta, accompagnato dal giuramento di difenderlo con le armi. La preesistente comunità dei suoi seguaci si trasferì colà nel 622, compiendo la cosiddetta Egira (partenza, distacco). Difficile anche là fu l'opera sua, ma andarono man mano crescendo i pagani aderenti al suo verbo, grazie anche alla sua abilità politica, in mezzo alle contrastanti forze della città, fra le quali — dice il Gabrieli — « il Profeta seppe inserirsi con gradualità, tempestività, sagace valutazione degli uomini e delle situazioni». Non mancò dunque colà l'opera di azione politica, con qualche differenza (parrebbe) rispetto alla propaganda meccana; e il Profeta divenne in pieno il capo cittadino con la cosiddetta « costituzione » che vincolò a lui tutta la popolazione medinese di credenti, di pagani e di ebrei, rimanendo sempre il capo e maestro religioso. Dovette incontrare dapprima l'ostilità della maggioranza ebraica, ma riuscì a vincerla, ciò che non gli accadde altrettanto altrove. L'ampliamento della sua azione si rivelò — tratto notevole per il seguito della sua carriera e per quella del suo popolo — con razzie contro carovane meccane, rientranti del resto in una pratica secolare della società araba. Dalla Mecca si reagì con una spedizione punitiva contro Medina. Fu la cosiddetta « guerra del fossato », terminata con una crisi militare e morale della società meccana, e con la liquidazione cruenta della « quinta colonna » ebraica. Al successo bellico tenne dietro da parte di Maometto un'abile politica di conciliazione verso i meccani, che ebbe pieno successo. Nel « pellegrinaggio di addio » del marzo 632 egli proclamò: « Oggi ho reso perfetta per voi la vostra religione, ho condotto a compimento fra voi la mia grazia, e mi è piaciuto dare a voi per fede l'Islam »: parole di cui non si potrebbero immaginarne altre di più compiuta coscienza di sovranità: sembrerebbero quasi un manifesto di quello che oggi chiamiamo « totalitarismo ». La realtà, però, fu diversa. In fatto di ordinamento politico-sociale l'eredità sovrana di Maometto restò ridotta alla professione del Corano, con il suo monoteismo religioso, benevolmente negativo per il culto beduino tradizionale, e nella pratica per gli ebrei di ostilità a fondo, come sappiamo; ma rigorosamente obbligatorio anche per i cristiani, pur senza nessun precetto per l'ordinamento concreto del popolo. Sia detto qui, senza nessuna pretesa di giudizio formale, che il Corano si presenta, per uomini di tradizione cristiana e di cultura europea, come un ammasso monotono di sentenze elementari, privo di qualsiasi slancio elevato, di qualsiasi originalità intellettuale: filastrocca perpetua di ripetizioni generiche e anche insipide, salvo saltuarie stranezze inconcludenti. Non a tutti probabilmente piacerà questo giudizio negativo: ma anch'essi dovranno riconoscere quella mancanza di concretezza e di calore di cui abbiamo parlato. Un precetto fondamentale di condotta pubblica possiamo trovare in Maometto divenuto signore del suo popolo: il precetto della guerra santa o « gihad » contro gli infedeli, « legato — scrive Gabrieli — a perentori passi coranici»: per esempio: « Combattete sulla vìa di Dio coloro che vi combattono. Uccideteli dovunque li trovate, e scacciateli di dove hanno scacciato voi » (Sura 2, 186-87). Maometto non fece nessun preannuncio, anche solo in via di possibilità, della sua morte; non designò un successore non dette disposizioni per il governo futuro. Al popolo sbalordito, che non si aspettava la sua scomparsa, fu l'anziano e autorevolissimo seguace Abu Bakr ad annunciarla, aggiungendo la proclamazione che la sua dottrina rimaneva intera: gli altri più fidi seguaci proclamarono che il nuovo capo doveva essere preso nella tribù di Maometto, i Coreisciki, e il gruppo dei più antichi e autorevoli acclamò Abu Bakr stesso « califfo » (luogotenente, successore). Fu inteso che il Califfo avrebbe avuto la direzione temporale, senza autorità religiosa: separazione difficile ad effettuare integralmente, anche per il fatto che Maometto non aveva effettuato nessuna opera organica di ordinamento della comunità. ★ ★ Apparvero ben presto dissensi e rivalità: Ali avrebbe voluto lui, come genero, il califfato, e fu questo il germe di un dissenso, primo di tutta una serie, che mostrò la debolezza interna del nuovo Stato. La comunità nominò invece successore Omar, e poi Othman: ma ambedue questi primi capi caddero sotto i colpi dei rivali. Alla morte di Othman, Ali si fece proclamare Califfo, ma non tutti lo accettarono: un congiunto dell'ucciso, Muawiya, domandò giustizia e non ottenendola arrivò a contestare la legittimità del potere di Ali. Prima ancora di Muawiya, altri avversari scesero in campo contro Ali, appoggiati dal la vedova di Maometto, Aisha: era proprio nelle alte sfere che si annidava la discordia, ciò che mostrava — occorre ripeterlo — la debolezza intima del nuovo Stato. Ali vinse nettamente i primi avversari, mentre l'esito rimase incerto con Muawiya, che seppe unire alla opposizione politico-militare quella religiosa, tanto che si costituì contro di Ali un vero e proprio scisma, quello dei Kharigiti («insorgenti»). La lotta divenne impari per Ali, ribellandosi una provincia dopo l'altra, finché un attentatore kharigita lo colpì a morte. Muawiya rimase padrone del campo; ma a sua volta incontrò una opposizione parziale irriducibile, lo Shia (partigiani di Ali), rimasto una divisione perpetua dell'islamismo. Muawiya, « politico finissimo », dice il Gabrieli, « uno dei più geniali uomini di Stato che l'arabismo abbia pro¬ dotto », riuscì a trasformare il califfato da elettivo in ereditario: la dinastia così fondata durò novant'anni e dette i suoi confini più vasti allo Stato arabo-islamico. Ma neanche essa, dice sempre il Gabrieli, ebbe l'idea di fondare uno Stato nazionale arabo, su base prettamente etnica anziché esclusivamente religiosa. Il peggio fu che Muawiya non sradicò le forze centrifughe, le quali poco dopo la sua morte riesplosero violentemente, alimentate dagli sciiti, vendicatori di un figlio di Ali, Al Husein, caduto combattendo gli Omayadi, ciò che aprì una serie di rivolte in cui agli sciiti si aggiunsero da sponda opposta i kharigiti. Queste furono domate; ma non altrettanto avvenne per un altro movimento oppositore, quello degli Abbasidi, discendenti da alAbbas, uno zio del Profeta. Essi scesero in campo dietro il non spento legittimismo alide; ma si appoggiarono poi su un elemento non arabo, il neomusulmanesimo persiano, il quale assunse un tale sviluppo da sormontare e quasi soffocare l'elemento arabo, risuscitando in nuova veste la Persia: una Persia alide, che trovò la sua rappresentanza palpabile nella nuova capitale Baghdad, partecipando i Siriani a questo movimento di sottomissione araba. ★ ★ Fu un cambiamento radicale di scena etnico-politica, che riportò una vittoria definitiva nella battaglia dello Zab (750). Fu l'ultimo Califfato, non scomparso mai — si può dire — formalmente, perché altri dominatori musulmani asiatici assunsero quel titolo fino ai nostri giorni, dopo la caduta di Baghdad nel 1258. Gli Omayadi scomparvero: un ultimo loro rampollo, Abd-er-Rahman, si proclamò Califfo nella conquistata Spagna. Fu questo il culmine di un movimento dissolvente per cui i governatori delle varie contrade sottomesse assunsero una sovranità indipendente, in Egitto, in Algeria, in Tunisia, in Mauritania. Fu dunque, l'epoca degli Abbasidi, la fine della grande conquista araba; e per colmo di ironia storica fu proprio il periodo appellato dell'imperialismo arabo per eccellenza, questo con capitale Baghdad. Fenomeno tanto più notevole in quanto esso segnò un trionfo dell'elemento culturale, rimasto una semplice appendice del periodo precedente autenticamente arabo. Nel IX-X secolo, contemporaneamente ai Carolingi in Occidente, si ebbe in Persia, Mesopotamia, Siria, con base la cultura bizantina, quasi un nuovo ellenismo. Con la caduta di Baghdad, per opera dei Mongoli, l'era dell'arabismo era finita, si può dire anche nel ricordo. Per un ritorno di vita internazionale arabica occorre arrivare all'età napoleonica. Ma il vicereame egiziano, nonostante aspetti brillanti (Canale di Suez), non ebbe una vita internazionale spiccata, che offra materia per il nostro ordine di osservazioni. Solo va ricordato che accanto alla sovranità ottomana — più nominale che altro — incomincia la serie delle colonizzazioni europee, particolarmente africane francesi: Algeria, Tunisia, Marocco, e possiamo aggiungere l'occupazione e amministrazione inglese dell'Egitto che — direi — fece più bene che male all'antico regno. Divenuto, o tornato l'Egitto regno indipendente, abbiamo un nuovo periodo di contese interne, fra il regno risorto e — diciamo pure — i democratici. Questi trionfano con una improvvisata repubblica, che appena nata cambia di capo interno. E siamo a Nasser, al grande Nasser. Non ho mai capito perché egli sia assurto a grand'uomo: dobbiamo piuttosto dire che, tanto all'interno quanto all'esterno, segnò un avviamento al dispotismo e al nazionalismo battagliero e — al trar dei conti — inconcludente. Esso non servì certo a porre le fondamenta di un nuovo Egitto arabo, libero e forte e congiunto agli altri Stati sorti dalla decolonizzazione odierna. Dai quali tutti ci è dato uno spettacolo, verrebbe voglia di dire, pirotecnico, di regimi sorti e caduti, di tentativi svariati di associazione durata qualche anno, o rimasta finora sulla carta, e contemporaneamente di lotta arrabbiata, ricca solo di sconfitte, contro il ben saldo Israele. Veramente l'arabismo nazionalista odierno — in qualche caso (Gheddafi in Libia) di un ridicolo fanatismo musulmano — rievoca in misura che si potrebbe dire indecorosa, quella debolezza di struttura politica che abbiamo illustrato nel suo periodo medievale. Luigi Salvatorelli