Piovani a Manthansen di Clemente Granata

Piovani a Manthansen Pellegrinaggio nei campi di sterminio nazisti Piovani a Manthansen Accompagnati da sei ex deportati, trecento studenti e lavoratori si sono recati nei luoghi che videro la ferocia delle SS - L'orrore davanti alle camere a gas e ai forni crematori - Un commento: "Come hanno fatto i sopravvissuti a reinserirsi nella vita?" (Dal nostro inviato speciale) Mauthauscn, 1 ottobre La strada da Linz a Mauthausen corre parallela al Danubio tra alberi di mele e campi di granturco. Qua e là spuntano villette e la sagoma di una fabbrica. Sullo sfondo colline di un verde cupo. C'è il sole, il tempo è ancora mite. Ma tra qualche giorno, come ogni anno, dalla vallata dell'Enns verrà il vento gelido e tagliente e durerà fino a maggio. Mauthausen ha quattromila abitanti. Nulla di diverso da Plesching, Fraistral, St. Georgen ed altri piccoli centri disseminati nei dintorni. E' un paese tranquillo. Pare voler dimenticare gli oltre 150 mila deportati politici dal 1938 al 1945, i 127 mila 768 morti, la barbarie e la cupa eclissi della ragione. Il « Lager » è isolato su un promontorio. Sbuca improvviso dietro una curva. Lo circondano pini e cipressi. Ecco le mura massicce, l'ingresso con le due torri a pagoda, l'«Appelplaz », le baracche ricostruite, i letti a castello; ecco la « scalinata della morte », la cava che adesso è piena d'acqua, il filo spinato, la camera a gas, il forno crematorio, gli strumenti di tortura. Ecco le lapidi, le steli, i monumenti. C'è silenzio. Il «Lager» ora è luogo di meditazione, sacrario, chiesa o cimitero. Ma a differenza di Auschwitz non riesce a creare l'atmosfera del campo di deportazione Ci vogliono le testimonianze. E' necessaria la presenza dell'ex-deportato. Allora rivive l'inferno. Ogni pietra, ogni scalino, un ricordo. Ogni angolo si riempie di orrore. Sono grida rauche di SS e di « Kapò », feroce abbaiare di cani, urla di torturati e gemito di moribondi. E' il processo di spersonalizzazione dell'individuo, la sua disintegrazione fisica e morale, Ho seguito quassù una comitiva di circa trecento giovani di 260 comuni del Piemonte accompagnati da sei superstiti dei « Lager » in un viaggio organizzato dal Consiglio regionale rappresentato qui dall'assessore Vietti e dai consiglieri Debenedetti, Fassino, Fonio, Raschio e Sanlorenzo. I giovani sono studenti e lavoratori dai 16 ai 25 anni. La stessa età che in maggioranza avevano le vittime della persecuzione nazista. I sei deportati sono ex-partigiani: Raffaele Maruffi, Marco Gatti, Ermes Bolognesi, Italo "ribaldi, Elio Masante, con loro c'è una donna, la prof.ssa Lidia Rolfi Beccaria che passò un anno a Ravensbruck. Dicono: « Siamo venuti via tutti un po' strani ». Dicono: « Conduciamo per mesi e mesi una vita normale, poi ci accorgiamo che ci va stretta. Qualcuno ha chiuso con il passato e non viene più qui. Altri invece ci vengono forse troppo ». Li lega un vincolo che è qualcosa di più della solidarietà e della fratellanza. Ogni ex-deportato accompagna un gruppo di giovani. Gli si affollano intorno, cercano di sapere, interrogano, vogliono trarre dal passato un ammonimento anche per il presente. Uno studente di Alessandria: « Sapevate che cosa vi sarebbe accaduto venendo qui? ». Risponde Maruffi: « Se poteva esserci ancora qualche illusione, cadeva appena giunti al campo. Ci facevano entrare e spogliare proprio lì in quel punto » ed indica una scalinata alla destra dell'ingresso principale. Ore di attesa, rasati a zero, privati dei propri indumenti ed obbligati ad indossare la divisa a strisce. « E mentre aspettavamo, vedevamo passare carrette con cumuli di cadaveri ». Cosi si iniziava il processo di spersonalizzazione che aveva il momento culminante nel periodo di quarantena. Masante: « Ci mettevano dentro le baracche. Una fetta di pane ed un po' di brodaglia da trangugiare. Di notte ci svegliavano all'improvviso. Eravamo in balia dei Kapò. Avevano su di noi ogni diritto ». Ricevevano in consegna dalle SS un certo numero di prigionieri, le SS pretendevano la restituzione dello stesso numero, ma non importava che fossero vivi o morti. « Ti finivano con gli stenti, con le nerbate, con le ore di attesa nell'Appelplatz sotto il vento gelido, guai a muoversi, era la condanna ». Altri giovani: « Nessuno si ribellava o tentava di fuggire? ». Maruffi: « Ha tentato di farlo un gruppo di ufficiali russi. Sono stati finiti in gran parte a colpi di mitra. L'ufficiale più alto in grado, Karbyscek è stato ridotto con gli idranti ad una statua di ghiaccio ». All'ingresso del campo gli hanno eretto un monumento ». Uno studente di Cuneo: « Ma ora questo mi sembra un posto troppo ben tenuto, troppo curato. E' quasi un giardino. Perché non sono state mantenute le cose come erano? ». La prof. Rolfi Beccaria: « E' vero, questo è un ambiente asettico, ben attrezzato, come Dachau. C'è evidentemente la volontà di allontanare il ricordo dei crimini che sono stati commessi. E' difficile comunque mantenere intatta l'atmosfera. Qui oltre che sul fisico, indebolendolo fino allo stremo, si operava sulla psiche. Era la riduzione dell'uomo ad un automa. Un individuo privato di coscienza e di volontà ad un punto tale che rifiutava anche di cercare la morte: i suicidi infatti sono stati molto pochi ». Altre domande sull'organizzazione del lavoro, sui Kapò, sulle camere a gas ed i forni crematori. « Da quando hanno incominciato a funzionare? ». Maruffi: « A pieno ritmo dal 22 aprile del 45' fino ai primi di maggio. Giorno e notte. Ma qui è necessario fare un'osservazione. Il forno e la camera a gas vengono considerati i crimini più allucinanti. In realtà erano il momento di arrivo, di un processo di persecuzione crimi¬ nale altrettanto allucinante che disumanizzava l'individuo al punto che ad esempio giungeva ad uccidere il compagno se il Kapò l'ordinava ». Ma la gente del posto, sapeva? Questo l'interrogativo più frequente tra i giovani visitatori. Gli ex-deportati: « Hanno sempre detto di essere all'oscuro di tutto. Ma ci domandiamo: come era possibile? Vedevano arrivare i vagoni piombati. Vedevano i deportati recarsi al lavoro, dovevano rendersi conto delle nostre condizioni. Si avvicina uno studente con le lacrime agli occhi: « Mio padre è stato in un campo di concentramento. Racconta cose terribili. E mi domando come abbiano fatto lui e la minoranza che è riuscita a scampare a reinserirsi nella vita ». Italo Tibaldi che a 16 anni fu inviato nel campo di Gusen, dice: « Quelli che sono scampati, rientrando, si facevano quasi lo scrupolo di essere tornati. Si veniva da un mondo di violenza e si era traumatizzati per sempre. Diciamo che io e gli altri siamo poi riusciti a reinserirci gradatamente con la stessa forza di volontà con cui eravamo sopravvissuti nel campo. A Mauthausen i deportati italiani furono oltre 7 mila, si salvarono in 1430. Dal castello di Harteim, poco lontano, nessuno uscì vivo. Torturati, sottoposti agli esperimenti scientifici, massacrati. A casa arrivava un biglietto: « Deceduto per collasso ». La visita dei 300 giovani nei luoghi di sterminio in Austria finisce in questa sinistra costruzione. Sul muro di una stanza a pianterreno c'è una lapide. Dice: « Ai giovani di ogni stirpe e nazione affinché la causa per cui essi morirono sia presente e ammonitrice della lotta suprema per la libertà umana, per l'indipendenza dei popoli, per l'avvento di una società più giusta nel pacifico consorzio di tutte le genti ». Clemente Granata

Luoghi citati: Alessandria, Austria, Cuneo, Piemonte