Riforma monetaria La tappa di Nairobi di Mario Ciriello

Riforma monetaria La tappa di Nairobi Il convegno di cento ventisei Paesi Riforma monetaria La tappa di Nairobi Il bilancio dei lavori non è positivo ma neppure negativo: non si è arrivati ad un accordo sulla riforma, ma i partecipanti hanno concordato sulla necessità di una soluzione - I contrasti fra europei e giapponesi da una parte e americani dall'altra (Dal nostro inviato speciale) Nairobi, 29 settembre. Cominciato sotto la pioggia, il convegno di Nairobi è finito ieri finalmente intiepidito dai raggi di un sole pallido e ventoso: ma al blando miglioramento meteorologico non ne è corrisposto uno psicologico. Pochi sono i delegati che tornano oggi soddisfatti e ottimisti alle loro capitali. I più, e soprattutto i più importanti, non nascondono il loro disappunto e le loro preoccupazioni. Disappunto, perché non si sono ottenuti risultati più arditi: preoccupazioni, perché i mille discorsi e colloqui hanno rivelato quanto siano gravi le difficoltà che ancora ostacolano una riforma monetaria. Si può dire anzi che la maggior consapevolezza di tali intralci è il frutto più apprezzabile di questo ventinovesimo consesso annuale del Fondo monetario e della Banca mondiale. Sia ben chiaro, qualcosa si è fatto, il bilancio non è del tutto negativo. Si sono avuti tre incoraggianti sviluppi. Primo: si è stabilito che per il 31 luglio debbano essere risolte le controversie che impediscono un compromesso sulla riforma. Secondo: i ministri del Gruppo dei Venti hanno accettato che i cinque grandi. Usa, Germania, Giappone, Francia e Inghilterra, si consultino separatamente sugli aspetti politici. Terzo: i 126 Paesi del Fondo monetario hanno approvato una risoluzione in cui si afferma che il preprogetto di riforma presentato dai sostituti dei Venti, sotto la guida di Jeremy Morse, «costituisce il profilo generale del futuro sistema». Questo «profilo» è ormai noto da alcuni mesi. Lo ha descritto concisamente, ieri, nel suo discorso conclusivo, il direttore del Fondo l'olandese Witteveen: « Su alcuni principi siamo ormai d'accordo. Il nuovo sistema dovrebbe basarsi su parità stabili ma modificabili, con la possibilità di fluttuazione in certe circostame. Dovrebbe esservi un'intesa sulla convertibilità. I diritti speciali di prelievo dovrebbero divenire il principale strumento di riserva. Il volume della liquidità globale dovrebbe essere sottoposto a efficaci controlli internazionali. Obblighi e diritti si applicherebbero simmetricamente sia alle nazioni in deficit che a quelle in attivo e, infine, il nuovo assetto dovrebbe tener conto delle necessità e delle aspirazioni dei Paesi in via di sviluppo». Fin qui tutto bene, ma, come ha aggiunto Witteveen, «molto lavoro dev'essere ancora compiuto per foggiare un atteggiamento comune sul modo migliore di raggiungere questi obiettivi». Insomma, si ha un'idea approssimativa della destinazione finale, ma non si è ancora concordato come arrivarvi. E l'impedimento principale è costituito dal contrasto fra europei e giapponesi da una parte e gli Stati Uniti dall'altra (non che gli europei siano compatti, quando mai lo sono? La Germania è la più comprensiva verso l'America, la Francia è ' al polo opposto). Il contrasto è politico, qualcuno ha detto «teologico», e l'urto sul piano tecnico non ne è che la conseguenza. Un funzionario americano ha descritto la questione in poche e secche parole: «Se i governi s'accordano, gli esperti possono stilare il documento finale in un pomeriggio». Cosa separa l'America dal resto del mondo? Non vi è una causa unica, se ne possono indicare diverse, non ultima l'indebolimento dell'amministrazione Nixon sotto i colpi dello scandalo Watergate (proprio ieri, la rivista Business Week ha dato per probabili le dimissioni in gennaio del ministro del Tesoro George Shultz) ma il fatto dominante è questo. Washington non vuole la riforma sino a quando non avrà risanato la sua bilancia dei pagamenti, e guarito e irrobustito il dollaro. Può darsi che accetti di concludere un accordo per settembre, quando si avrà il prossimo convegno del Fondo monetario e della Banca mondiale, ma non è detto che ne accetti subito l'applicazione. Vuole prima dei surplus nei suoi conti con l'estero, vuole poter scendere in campo se non in posizione di forza almeno in posizione di parità con l'Europa ed il Giappone. Il lettore attento domanderà: «Ma perché considerazioni americane intralciano la riforma? Non è parere comune che la bilancia Usa dei pagamenti tornerà in attivo nel '74? E non è ormai ammesso da tutti che il nuovo assetto non entrerà comunque in vigore prima del 75?». E' vero, ma fino a un certo punto. An¬ zitutto, gli europei e il Fondo monetario vorrebbero avviare l'attuazione della riforma ancora prima della ratifica: vi è chi chiede ad esempio che il meccanismo del processo di aggiustamento scatti jià nell'estate o nell'autunno '74. Indi, le obiezioni e riluttanze americane ritardano l'opera dei tecnici, creano dissidi e tensioni fra gli stessi europei, danno tempo al «Terzo Mondo» di coalizzarsi contro le deficienze e carenze del piano. I Paesi in via di sviluppo hanno annunciato a Nairobi che respingeranno una riforma che non faccia affluire più Dsp nella loro direzione, istanza respinta dagli Usa. Così stando le cose, non stupisce l'impasse sulle due vitali questioni del processo di aggiustamento della convertibilità. Gli americani vogliono un rigoroso e « automatico » processo d'aggiustamento, affidato soprattutto a un vincolante codice di condotta con indicatori statistici, quali segnale d'allarme. Europei e giapponesi vogliono un processo più flessibile, in cui le valutazioni e le decisioni sarebbero lasciate in buona parte alla Comunità monetaria e in particolare al Fondo. (Non si dimentichi che Washington non ha più in quest'organo la supremazia di cui ha goduto per molti anni). Più profondo ancora il contrasto sulla convertibilità. Gli americani, temendo di dover cambiare milioni di dollari, insistono perché la convertibilità resti bilaterale, aperta cioè a pressioni politiche. Gli europei la vogliono multilaterale e obbligatoria. Altri dissensi esistono sul significato di cambi « stabili, ma modificabili », sull'eventuale durata delle future fluttuazioni, nonché sull'oro. Non sarà mai fatta allora questa riforma? Si farà, è ormai inevitabile, ma Nairobi ha confermato che l'impresa è faticosa, spesso snervante, che gli interessi da conciliare sono colossali, che se si vogliono evitare delusioni conviene non guardare troppo il calendario. Sarebbe ingiusto inoltre attribuire ogni torto agli americani. Come ha ricordato il Cancelliere dello Scacchiere Anthony Barber, « siamo tutti riluttanti a prendere grandi e impegnative decisioni »: o come ha detto Shultz, «manca un senso collettivo di responsabilità ». Perché? Per molti motivi. Perché gli europei vedono barcollare il loro serpente e pensano (principalmente i tedeschi) che in realtà il futuro assetto monetario dovrebbe essere un serpentone mondiale. E poi perché, nonostante i quotidiani allarmi, i Paesi più ricchi sono in pieno boom e, pur negandolo, si sono abituati a vivere con le fluttuazioni. Alla fine della prima guerra mondiale, si diceva in Austria: « La situazione è disperata, ma non grave ». Questa battuta è stata citata parecchie volte al Kenyatta Conference Centre. In altre parole, solo una bufera monetaria o una crisi economica potrebbe iniettare nelle potenze finanziarie quel « senso di urgenza» che Witteveen ha invocato in ogni suo discorso. Mario Ciriello

Persone citate: Anthony Barber, George Shultz, Jeremy Morse, Kenyatta, Nixon, Shultz