Testimoni di ieri di Lorenzo Mondo

Testimoni di ieri MEMORIALISTI DELL'OTTOCENTO Testimoni di ieri A partire almeno dal secondo dopoguerra, il concetto di letteratura, prima aristocratico e selettivo, si è esteso anche da noi, fino ad accogliere voci già sminuite e condannate alla dimenticanza. L'irrompere sulla scena di nuove forze sociali e la riscoperta della lingua delle regioni, portano all'oscillazione del gusto, alla diffidenza per i vecchi parametri, al desiderio di confrontarsi con scrittori eslege, emarginati. Si torna a investigare dentro l'Ottocento, uno dei secoli più ricchi di mutamenti nella nostra storia, convinti che, se è difficile imbattersi nel capolavoro sconosciuto, si possono tuttavia rintracciare tendenze significative, magari eluse o strozzate sul nascere, linee di sviluppo affiorate dopo sotterranee eclissi, come per miracolo, in pieno Novecento. La storia della letteratura finisce per risolversi in storia della cultura, nell'accezione più ampia, e vi ha la sua parte la caduta dell'egemonia crociana. Il discorso vale soprattutto per i libri di confessioni e ricordi e non a caso, nella pregevolissima collana di Ricciardi, ai primi due tomi sui Memorialisti dell'Ottocento se n'è aggiunto un terzo, a cura di Carmelo Cappuccio, che, senza strafare, dà una buona scrollata ai valori codificati e all'autorità dei luoghi comuni. Tolti De Amicis e Faldella, gli altri nomi sono poco noti e inattesi, in qualche caso sottratti per la prima volta alla polvere delle biblioteche. Si va dal pittore Niccolò Monti, viaggiatore in Polonia al seguito di un nobile, colto nell'estremo riverbero del cosmopolitismo settecentesco, a Fedele Romani, studioso di lingua e filologo, meridionalista antelettera, che si spegne ormai a Novecento inoltrato. Siamo nell'ambito di una letteratura che non ha ben chiari i confini con quella di viaggio, per cui vi tiene un buon posto l'esotismo. De Amicis si muove con disinvoltura nel tempo e nello spazio: le pagine su Costantinopoli, con l'incendio di Pera e la rievocazione dei sultani — le orde calanti, le abbaglianti parate — denunciano l'origine libresca. Ma sorprende la « crudeltà » con la quale schizza la sua brava corrida, la felpata malizia ch'egli mette in certi incontri femminili: con le virago di Frisia dall'elmo lucente (« Leuwarde pareva una immensa caserma di corazzieri sbarbati, una metropoli di regine spodestate, una città dove tutta la popolazione si prepara a una grande mascherata medioevale ») o con le donne di Fez che, sorprese da un terrazzino più alto nella loro indolenza e nei piccoli traffici, si sbandano come aeree gazzelle. Davvero che il Cuore fu per Edmondo un volontario, mistificante cilicio. Tra i viaggiatori spiccano però, come primizie, due scrittrici, sul tipo della « mulier fortis ». Amalia Nizzoli, ancor giovinetta, fu chiamata in Egitto dallo zio, medico del Defterdar-bey o ministro delle Finanze, e vi sposò successivamente un funzionario del consolato austriaco. Le fu quindi possibile familiarizzarsi con il paese ed essere accolta in ambienti riservatissimi. Nelle sue visite all'harem, la golosità delle recluse, le mediocri afflizioni, l'insolenza delle schiave testimoniano soltanto di una moltiplicata ossessione per un borghese agio e decoro e dunque, per altra via, dell'irrimediabile decadenza della Sublime Porta. L'incanto esotico, potenziato da un lieve erotismo, ripara piuttosto nel capitolo del bagno in comune, riferito dalla Nizzoli con una franca e robusta na'iveté. E bisognerà almeno ricordare il viaggio fino a Livorno sulla nave sconquassata, mentre il comandante minaccia di gettare ai pesci le mummie della sua collezione, colpevoli per i marinai delle violente burrasche. ★ * Siamo ai primi decenni del secolo: negli ultimi esordisce e si afferma Annie Vivami. La ragazza che entrò come una folata di primavera nella vita del Carducci maturo, giungerà a tarda vecchiaia, morirà durante l'ultima guerra, stremata dai lutti familiari e dalle persecuzioni razziali. Qui, oltre gli incontri con il poeta, sfumati tra la seduzione e il compianto, si leggono con piacere alcuni brani, vivacissimi, del Fascino delle solitudini. E' la storia di come lei e il marito cercassero d'impiantare un allevamento di bestiame nel Texas: le innumerevoli traversie, le praterie aride e la paura del fuoco, l'urlo notturno dei coyote e la fuga delle mandrie imbizzarrite, vengono sottolineate con elegante umorismo, che nasce in parte dai casi nuovissimi di Annie, memore dei salotti di Londra e di Firenze. E su queste pagine stese in pieno Novecento non è escluso, magari attraverso la mediazione del cinema, l'influsso degli umoristi della frontiera americana: come rivela forse la quieta follia del mandriano che, isolato con le sue pecore, giunge ad esprimersi soltanto in belati. Non mancano, in queste prose che inclinano al confidenziale e spesso all'autocelebrazione, le figure di personaggi variamente noti, colti nei loro tratti domestici e comunque dimidiati che contraddicono all'immagine ufficiale. Basti ricordare un brano di Alinda Bonacci Brunamonti, che imperversò a suo tempo in tutta Italia con dizioni di poesia: dove si dimostra, a contrasto, la forza insita nel genere memorie che, se non sempre quella dello stile, è almeno quella delle cose viste e sentite. Racconta la Brunamonti che Paolina Leopardi, ormai inacidita e restituita in tutto al conformismo di famiglia, ebbe a ricevere una deputazione del regno che si complimentò con lei a proposito del fratello: « asprelta e ritrosa, anziché commossa, rispose: — Sì, mio fratello, certo, è stato un grande letterato; ma non capisco come lo vogliano esaltar tanto, mentre infine non credeva a niente ». ★ ★ Un grosso tema, inevitabile nella memorialistica del secolo, è quello del Risorgimento che però appare, in questo volume, sotto una luce un po' velata, di stanchezza e di critico ripensamento. Sono lontane le fanfare e i generosi sensi dell'epopea garibaldina, la stoiche affermazioni dei carcerati e degli esuli. Già il De Amicis, ripiegandosi sull'infanzia, rammenta la riluttanza dei popolani piemontesi, nel 1859, ad arruolarsi ed a farsi ammazzare, i loro battibecchi e scontri con i « signori » che inneggiano alla guerra patriottica (« perché una guerra fosse veramente nazionale, si dovrebbe andare a battere molta gente la quale rimane in casa... »). Ed è ben lui, l'affabile e scanzonato cronista dell'occupazione di Roma, a darci il resoconto dell'adunanza popolare, al Colosseo, per eleggere la giunta provvisoria: la commozione non riesce a mascherare l'ironia, parzialmente involontaria, sulle astuzie e sui trasformismi che presiedono al confuso e chiassoso pronunciamento. Cosi Gaspero Barbèra, il piemontese fattosi stampatore nella Firenze del Granduca, testimone e partecipe, nel suo ambito professionale, del moto unitario, ci lascerà ritrattini aguzzi del Pellico che trascina la gamba intormentita dai ferri dello Spielberg; o di Massimo D'Azeglio dubbioso nella stesura dei Ricordi e sereno sul letto di morte. Ma segnalerà anche le insofferenze tra letterati, che sono spesso insofferenze ideologiche (il Guerrazzi: « quando un toscano parla anche da sguaiato, un po' più un po' meno dice quelle frasi che nei Promessi sposi si vedono collocate a far mostra di sé »), malumori e incomprensioni tra regione e regione. Come quelli dei piemontesi scesi a Firenze, che non sopportano d'essere snobbati: « Per quattr' guadrass ch'a l'han, a fan un bourdel da forca! » (per quattro quadracci che hanno, fanno un chiasso del diavolo). L'editore predica pace, lamentando la « goffaggine e ignoranza » dei subalpini, ma anche la « presente ignavia » delle città « che menano soverchio vanto di quello' che hanno fatto in altri tempi ». Non sono così marginali e nulla concedono al sorriso le pagine di Colledara, dell'abruzzese Fedele Romani, tra le più asciutte e fervide, stilisticamente risolte, di questo volume antologico. Colledara, ai piedi del Gran Sasso, rivive nell'arcaico fulgore della natura intatta, in una fosca trama di superstizioni e incantamenti, di atroci incursioni brigantesche. L'autore registra l'eco fioca del Risorgimento su questo selvatico Abruzzo, l'urto del vecchio con il nuovo, complicato da infinite contraddizioni, lo stupore con cui i contadini accolgono i primi drappelli piemontesi, a loro volta meravigliati, diffidenti, smarriti come in terra di conquista o d'esplorazione. Del resto, il ragazzo che è riuscito a svilupparsi da quel mondo remoto, che ha studiato, che si è imposto come un dovere l'insegnamento nelle più perdute scuole d'Italia, riesce a valutare con disincanto l'incolpevole ignoranza delle turbe meridionali, l'ignavia dei ceti abbienti, fermi al pregiudizio che il lavorare, il coltivare i campi, il commerciare siano un'umiliazione. Sa bene che la rivoluzione italiana fu opera di élite, « usciva dalla scuola, e il popolo, e specialmente quello di certe province, non la capiva, né la desiderava ». Ed augurandosi che « quella massa grigia, che non significava nulla » esca dal lungo sonno, invita a non combatterla « con dolore e con spavento » prima ancora che nasca, ma a porgerle fraternamente la mano. Sono forse le sole pagine che riescano ad intravedere ed accogliere i problemi sociali senza considerarli come una «momentanea aberrazione», un frutto di maligne congiunzioni astrali ed umane. Poi c'è il silenzio, quando non sia lo scandalizzato passeggio di Gaspero Barbèra per le strade di Parigi dopo la sconfitta della Comune, tra colonne di prigioneri e applausi riottosi alle facciate dei palazzi che crollano. Non riesce a capire come gli incendiari abbiano potuto operare tranquilli e ottenere consensi in mezzo a una popolazione d'un milione di abitanti ritenuti pacifici e laboriosi. Alla fine propone, soavemente, di allontanare da Parigi, non si sa come o dove, le duecentomila blouses: « Finché Parigi ha tanti operai nel suo seno, Parigi sarà in continuo pericolo ». Lorenzo Mondo