Nitti in esilio

Nitti in esilio TACCUINO DELLA MEMORIA Nitti in esilio Unica gli sopravvive l'ultimogenita, superstite anch'essa al proprio figliuolo, cui si era imposto, e che si sperava potesse perpetuare, il nome dell'avo. Eppure, oltre la fitta e lugubre cortina di tanti lutti, di tante malattie e traversie, di tante morti precoci e terribili, non so ripensare a lui ed ai suoi senza serenità e quasi gioconda lietezza dell'animo,. solo che dalla memoria mi sgorghino freschi i ricordi, le immagini della sua casa — « la casa dell'esilio che starà, e le Tuileries caddero »... —, gli echi di quelle conversazioni, il ritmo di quelle affettuose e spesso ironiche risate cordiali, quand'anche non risparmiassero nella critica nessuno, forse, dei pur fedeli visitatori. L'appartamento era spazioso, perché la famiglia era grossa; era naturalmente elegante, per la naturale eleganza della signora della casa, ma era, sostanzialmente, una dimora modesta e semplice, che la sua distinzione, la sua dignità e la sua caratteristica derivava solamente dalla «qualità» delle persone che l'abitavano. I Nitti ricevevano tutti, ma ricevevano poco. Gli esuli, naturalmente, senza eccezione di tendenza o di parte, quelli soprattutto che fossero i più soli, i più infelici, i più (a dritto o a torto) sospettati, come Lauro De Bosis, vecchio amico degli anni romani e che i Nitti protessero ed ospitarono nei mesi tristissimi in cui, fra il ritorno dall'America e il processo ai suoi compagni e a sua madre, umile portiere d'albergo (per sbarcare il lunario...) meditava animoso il redentore od espiatorio suo volo d'Icaro. Radi erano i visitatori stranieri, soprattutto gì' italiani. Non mancava mai, le quante volte venisse a Parigi, Benedetto Croce, sovente accompagnato dall'una o dall'altra delle sue figlie maggiori. Ma i suoi viaggi in Francia non erano frequenti. Alcuni « fedeli » napoletani apparivano o, almeno, scrivevano. Ed altri esuli, di cui non c'era mancanza, nella Parigi degli Anni Trenta. Ma pochi, insomma. E quei pochi, i quali soltanto la sera venivano, potevano venir, a bussare alla porta ospitale di tue Vavin 26, sedevano al tavolo da pranzo, che non vi era « salotto ». Il Presidente andava e veniva fra la stanza da pranzo e lo studio, dove spiccavano gli scaffali ingombri di libri e il tavolo ingombro di carte — e di matite d'ogni forma e colore, i cui segni sulle pagine dei volumi o sui ritagli dei giornali e delle riviste costituivano, per Nitti, una sorta di segreto richiamo, quasi un suo personale e convenzionale cifrario. ★ * Perché Nitti, contro il quale si appuntava la calunnia, non solamente fascista, delle sue ricchezze segrete, se non era, propriamente, povero, certo non era ricco; e lavorava solo per guadagnarsi la vita con libri ed articoli e collaborazioni americane, variamente, ma molto aleatoriamente, fruttuose. Donde il tono di modesto decoro proprio della famiglia — e di donna Antonia. Uscivano, ella e il Presidente, assai di rado; non si concedevano alcuna villeggiatura, se non per la consueta cura d'acque a Aix-les-Bains. Partecipavano quasi esclusivamente (a prescindere da scarse capatine pomeridiane al cinematografo, magari coronate da una sosta in qualche caffeuccio della rive gauche) a « colezioni », come napoletanamente diceva Nitti, a «colazioni di lavoro», come oggi usa dire, le più volte in casa Caillaux o da Mme Tabouis. E Nitti vi si concedeva di buon grado, perché ne profittava a mobilitare cosi la stampa francese di sinistra e l'opinione pubblica dei clienti e frequentatori dell'ex-Presidente, contro il fascismo, contro (in ispecie) il finanziamento e foraggiamento estero del fascismo, in presunta funzione anti-comunista o per paura del peggio: in extremis, per cercar di staccare Mussolini da Hitler. Di questi contatti ed inviti, a livello quasi governativo o para-governativo, Nitti si compiaceva, non perché lusingassero la sua vanità (di cui non difettava) od alimentassero la sua nostalgia, come le immagini e fotografie d'altri tempi, i ritratti con dedica dell'amico Lloyd George e d'altri statisti dell'Intesa, ma perché l'aiutavano nella sua costante, instancabile opera di propagandista dell'antifascismo e di generoso, autorevole, efficacissimo « crocerossino », quando gli esuli, soprattutto i più poveri ed umili, avessero guai, rischiassero di perdere il permesso di soggiorno o di lavoro, fossero minacciati di espulsione o di estradizione, magari per essersi innocentemente, o troppo ingenuamente, prestati al gioco degli agents doubles e delle spie. In quest'opera di « croce rossa », di assistenza burocratica, tecnica e civile, di operosa e consolante amicizia, collaboravano con Nitti i suoi figli maggiori, Vincenzino, Luigia e Giuseppe, assidui nel suggerire impieghi o mezzi di lavoro, e nel procurar i permessi e le carte, i difficoltosi ed ingarbugliati papiers. Sorridevano, quei ragazzi scanzonati, magari motteggiavano e ironizzavano, sui fuorusciti, sulle loro insufficienze linguistiche (ma con la medesima giocondità e buona grazia raccontavano gli eventuali faux pas del loro padre). Eppure, non appena scorgessero una possibilità di aiuto od una minaccia di pericolo, erano all'opera e vi si dedicavano a tutt'uomo, quand'anche avessero i loro impegni e i loro guai, e Luigia i propri desideri e doveri di oramai celebre sanscritista e docteur en Sorbonne. ★ ★ V'era, forse, un solo nome che non era opportuno di pronunziare, se non l'avesse pronunziato Nitti per primo; ed era il nome di D'Annunzio che da Fiume occupata, all'accusa di sedizione militare aveva reagito e gettato in faccia al Presidente, quasi a schernirne certo fisico pingue e pesante, il lurido e triviale nomignolo di Cagoia. Nitti, però, non serbava rancore al Poeta e raccontava piacevolmente di lui, dei comuni anni napoletani nell'ultimo scorcio dell'altro secolo, quando insieme collaboravano variamente a un'opera di europeizzazione culturale d'Italia Nitti e D'Annunzio, Scarfoglio e Croce e la Serao. Qui ed allora anche nacque l'unione esemplare del giovine pubblicista e professore lucano con una delle formose figliole del giurista e letterato Federico Persico (« le Persicotte », come il Croce raccontava ch'erano chiamate a Napoli donna Antonia e le sue sorelle). Forse perché Nitti, inostentatamente competentissimo di cose classiche, si compiaceva di soprannominarmi Telemaco, da un'altra reminiscenza classica la mia giovanile sfrontatezza derivò il soprannome segreto di donna Antonia, la quale in verità mi pareva incarnare il mitico centauro. Ma quel « centauro » non solo era un angelo di bontà (un giorno la trovai a sgusciar piselli in cucina, sostituendosi alla domestica, la quale le aveva chiesto il permesso di ritirarsi nella sua stanza, « pour faire ma composition d'anglais»); era una delle signore più « signore » che ho incontrate nella mia vita, e fu la più coraggiosa delle madri, la più eroica ed intelligente delle compagne. Attese, dopo averlo pianto perduto e sperduto nella rotta di Caporetto, il ritorno di Vincenzino, volontario di guerra sedicenne e prigioniero (quasi a testimoniare non contro, ma per il « neutralismo » di suo padre). Attese, accanto al sepolcro dei due figli perduti e mentre si consacrava agli orfani di Luigia, il ritorno del marito, deportato in Germania nel '43 non appena la Gestapo conobbe la pronta decisione di Nitti, disposto a servire, lui non più oltre monarchico, Badoglio ed il re per la restaurazione e la rinascita dell'Italia. Nitti medesimo riconobbe, perduta donna Antonia quasi alla vigilia delle nozze d'oro, che nemmeno in politica era più oltre il medesimo uo¬ mo: che a donna Antonia egli aveva, dunque, dovuto il suo equilibrio, il suo coraggio e la sua saggezza, il fermo proposito di bandire ai quattro venti « verità impopolari ». Fu, invero, tra i primi a proclamare, già nel « maggio radioso », la difficoltà pressoché insormontabile, la durata almeno triennale della presunta guerre fraiche et joyeuse, in cui erano entrati « a cuor leggero » i negoziatori clandestini e inesperti del patto di Londra. Subito avvertì, da presidente del consiglio, che la borghesia e la corona tradivano — e che le libertà statutarie non si sarebbero potute salvaguardare se non partecipassero al governo, con lui o con Giolitti, con Bonomi o con De Nicola, i socialisti, per « rifare l'Italia », per un programma, dunque, di democrazia socialista. Subito avverti, ancor prima che le squadracce assalissero e devastassero il suo villino romano di via Pompeo Magno, l'irrimediabilità ed immedicabilità del fascismo, che la più parte della classe dirigente liberale italiana, gli stessi « popolari », la monarchia e il Vaticano vanamente s'ingegnavano, o s'illudevano, di potere « normalizzare ». Né tardò ad avvertire, e a temere per il Paese, il baratro della guerra in cui il fascismo sarebbe precipitato, quanto più i ciechi irridevano alle sue fosche profezie o s'inebriavano d'illusioni imperiali. Ma non avrebbe avuto, Nitti, questo coraggio, mentre i soliti « eroi » l'accusavano spesso di viltà e di paura fisica, se non avesse per sua fortuna saputo di poter contare sulla prima e massima delle umane felicità, la comprensione punto a-critica della sua compagna, la devozione compartecipe dei suoi figli. Perciò Nitti mi è sembrato sempre assai più di un « politico » e assai più di un « professore ». Aveva le ingenue debolezze, le piccole manie dell'uno e dell'altro. Ma l'uno e l'altro d'assai trascendeva: il professore, per tutto ciò che di anti-professorale, di non tecnico, di non professionale era in lui, un economista nutrito di classici e di umanesimo, aperto a tutte le cose belle ed umane del mondo; il politico, per il rifiuto di qual si voglia posa e demagogia, di qual si voglia proposito di tenersi distinto e diverso dalla comune degli uomini, di porsene al di sopra o al di sotto, per approfittarne, comunque, e sfruttarli. La sua tragedia, quel misto di forza e di debolezza in cui consisté storicamente la sua tragedia, fu nel suo lucido e disincantato, e in fondo napoletanamente pessimistico, ragionare, nel suo eroico ribadimento della « ragione »: quanto più, dall'antagonista D'Annunzio in poi, vigoreggiava e pareva trionfare nel mondo l'irrazionalismo. Contro la retorica fiumana, contro le grida e i manganelli delle squadracce, contro i forni e i massacri nazisti, affermò la ragione, credette nella ragione. E potè farlo, per se medesimo, per l'Italia, per il diverso avvenire, in quanto sentiva, quest'apparente arido e cinico delle stupide cronache faziose, nella calda quiete della sua casa, nella fedeltà inflessibile della sua cerchia domestica, riscaldarlo ed incoraggiarlo l'amore. Possiamo, dobbiamo dire, conclusivamente, che per questo appunto l'abbiamo amato? Piero Treves