La scuola dei pronipoti

La scuola dei pronipoti I lavori al simposio di "educazione permanente,, La scuola dei pronipoti Le varie tesi discusse dagli studiosi riuniti ad Entrèves - Huberman: "Il problema non è di aggiustare una scuola votata al fallimento" - Mitchell: "Deve spettare ai tecnologi pianificare sistemi di istruzione completamente nuovi" Gli inglesi hanno proposto: "Imparare ad imparare" - Il convegno si conclude oggi alla Fondazione Agnelli (Dal nostro inviato speciale) Entrèves, 24 settembre. Per tre giorni il piccolo borgo di Entrèves, con le sue grange fumose, i boschi severi, le scoscese pareti del Bianco, è divenuto il regno sereno degli audaci del pensiero, la fucina febbrile dei sogni per una società nuova e più giusta. Tredici studiosi dell'educazione permanente — la teoria dell'apprendimento continuo, della didattica perenne — si sono ritrovati per discutere e confrontare le loro tesi, in un simposio organizzato dalla Fondazione Agnelli, che si conclude domani a Torino con una tavola rotonda aperta al pubblico. Entrèves è stata la loro polis; i prati, le mulattiere, le funivie la loro agorà. Hanno parlato, teorizzato, auspicato, criticato, litigato. Bertrand Schwartz ha scoperto sulle Aiguilles du Midi che la sua attività di consigliere del ministro francese per l'Educazione nazionale non potrà mai trarre spunti utili dal pensiero del rivoluzionario per eccellenza Ivan Illich. E lo stesso Illich, davanti ad un caminetto acceso, con una grolla dell'amicizia in mano, ha detto a Olivier Giscard d'Estaing che il suo ultimo libro, «Education et civilisation», è il più stupido di quanti siano usciti sull'argomento quest'anno. I sociologi del gruppo hanno ritrovato nel «rito» di un ristorante alla moda «il senso di una civiltà primordiale, contadina», quale essi profetizzano necessaria per una rigenerazione del mondo, suscitando le cibernetiche ire dei tecnologi puri. Conclusioni, ovviamente, non ce ne sono state; né potevano esserci. Neppure sul termine educazione permanente si sono trovati d'accordo. Qualcuno (i tecnologi, appunto) la intende alla lettera, propone asili obbligatori per bambini di due anni, corsi di aggiornamento per operai, addirittura scuole per anziani, e scorge nei nuovi mezzi di comunicazione (la tv cavo, gli audiovisivi in genere), quali essi siano e da chiunque siano manipolati, la soluzione di ogni problema, la spinta per un futuro senz'altro migliore. Gli altri (i sociologi, i rivoluzionari), spalleggiati addirittura dalla commissione speciale dell"Unesco e dal suo presidente, Edgar Faure, additano i pericoli di un dissennato consumismo tecnologico, ammoniscono che «si può andare indietro anche andando apparentemente avanti»; al di là delle allettanti prospettive dei mass media e degli altri strumenti di comunicazione, essi amano scoprire i poteri che li manovrano; vogliono abbattere la tradizione oppressiva e nefasta, prima di pensare a quello che potrà essere il futuro. Su queste due trincee opposte, collegate da cunicoli di sotterranee connivenze, lo scontro è stato totale, inasprito nei rivoluzionari dal sospetto (o convinzione?) di parlare ad una umanità di sordi, di combattere una battaglia persa in partenza in un mondo che, a dispetto di ogni loro teoria, non cambierà più strada. Ognuno, comunque, ha recitato vigorosamente la sua parte, come in una inusitata commedia dell'arte dell'era tecnologica. Per esempio cosi. Richmond (professore a Glasgow, ispiratore del simposio): «L'educazione attuale è identificata nella scuola, che però costa troppo e serve a poco. Non solo, ma è legata a scopi che non hanno rapporti con la realtà, vuole preparare a ruoli stabiliti dall'establishment e a funzioni-tipo, tende alla conservazione camuffandola da progresso scientifico. Quindi va distrutta piuttosto che rafforzata: non occorre cercare pm mezzi, ma altri mezzi educativi. Bisogna realizzare davvero l'educazione permanente, ossia la città educativa, com'era la polis di Atene». Schwartz: «Questa è una bella teoria, potrebbe essere davvero la panacea del mondo. Ma io ho i miei malati da curare e ho bisogno di medicine che già ci sono, che posso somministrare senza sovvertire il sistema in cui vivono. Io vedo per esempio che le spese del ministero per l'Educazione in Francia aumentano del 10 per cento ogni anno, e che ogni anno 15 mila nuovi insegnanti entrano in servizio, senza che si modifichi positivamente il rapporto numerico tra docenti e allievi. Che cosa succederà, mi chiedo, tra dieci anni? E come porvi rimedio, in Francia e altrove?». Huberman (americano, professore a Ginevra): «Il problema non è di "aggiustare" una struttura scolastica votata al fallimento. I Paesi che, come l'Italia, credono di risolvere i problemi dell'educazione gonfiando a dismisura la struttura tradizionale (salvo poi non utilizzare ì fondi destinati) e prevedendo un aumento vertiginoso dell'esercito degli insegnanti, senza preoccuparsi minimamente dei livelli tecnologici, sono destinati a sicuro insuccesso». Mitchell (canadese): «Deve spettare al tecnologo dell'educazione pianificare i sistemi di istruzione a diversi livelli, in un crescendo fino al continuum, fino cioè alla vera educazione permanente. E insieme progettare nuove istituzioni, come in Inghilterra la Open University, le cui lezioni sono impartite attraverso un canale televisivo che copre tutto il Paese». James (direttore alla Open University): «Sì. ma con attenzione. E' facile vedere in una istituzione moderna come la Open University una forma universale tecnicamente avanzata di educazione. Ma il tecnologo non può fare a meno di chiedersi: chi c'è dietro, chi controlla questo stupendo strumento e che cosa vuole? Io so che ci sono ditte in America, come la General Motors e la Ibm, che hanno pronti programmi di insegnamento perfetti, graduati secondo la capacità delle persone; ma perché quei colossi industriali devono imporre il loro insegnamento? Il discorso principale è sempre quello del potere, nella nostra epoca più che mai». Illich: «Proprio la tecnologia oggi serve da paravento al potere stabilito, soprattutto al potere produttivo, e non ci permette di accorgerci che si va verso la distruzione del mondo con la produzione sfrenata. La scuola, feudo di privilegiati, aiuta questo errore. Bisogna, da un lato, descolarizzare la società, e dall'altro accettare la tecnologìa solo come mezzo "trasparente" per giungere ad un mondo più giusto». Mìtter (tedesco): «Io sono d'accordo che alcune forme di descolarizzazione sono necessarie, ma secondo me il compito più importante è aprire le scuole a nuove forme di libertà, con nuovi modelli di organizzazione delle classi e di partecipazione degli allievi, degli insegnanti, dei parenti». Musgrove (inglese): «No, ogni scuola formale è conservatrice per natura. Io sono per una scuola informale, qualcosa come le "preschool nursery" in Inghilterra: persone che insegnano ai bambini e alle loro mamme in modo assolutamente libero». Pask (inglese, consigliere «cibernetico» del governo americano): «Questo è importante: bisogna insegnare ad imparare. E bisogna, di conseguenza, imparare ad imparare, learn to learn, come diciamo noi inglesi». La recita a soggetto è proseguita per ore e ore, come si può immaginare. Poi la compagnia si è sciolta: qualcuno (l'italiano Gozzer, Schwartz) è tornato a casa, Illich è scappato via dal suo editore a Milano (è uno scrittore di successo), gli altri sono rientrati in pullman a Torino. Entrèves, fuggevole polis della società futura, è tornata il piccolo borgo montano di sempre. Carlo Sartori Entrèves. 1 relatori del convegno, Richmond, in primo piano, Pask, a sinistra, e Huberman (Foto Moisio)