Il cap. Medina di Enzo Biagi

Il cap. Medina I PERSONAGGI DEL DRAMMA Il cap. Medina New York, settembre. Il suo nome è Ernest L. Medina, per gli amici Ernie. La scrittrice Mary McCarthy trova che «ha l'aria dell'indiano cattivo dei film western». A me ricorda i «peones» di Pancho Villa, quelli che viaggiavano con la mitragliatrice e la chitarra sui parafanghi delle automobili, e cantavano e uccidevano. Il capitano Medina dell'esercito Usa ha 36 anni, una moglie graziosa, due figli. Faceva il soldato di mestiere; adesso è vicepresidente esecutivo di un'industria che fabbrica elicotteri, ma di quelli buoni, per i pompieri e i poliziotti, dice, niente bombardamenti. Il volto è lucido, gli occhi stretti e orientali, i capelli scuri; è nato nel Colorado, ma i suoi vengono dal Messico. Sta passando il weekend nella villa dell'avvocato Bailey, il difensore: un bel posto, a qualche chilometro dalla città, il prato è fradicio di pioggia, i cavalli, nella campagna, si rifugiano sotto gli olmi, nel soggiorno è acceso il caminetto. Ernie serve da bere, gli spiace proprio che lo sherry sia finito. Si è parlato molto di lui: comandava la compagnia Charlie che, a dar retta agli atti del pubblico ministero, «il 16 maggio 1968 uccise con premeditazione a My Lai, nella provincia di Quang Ngai, non meno di cento persone». C'era chi non aveva dimenticato i suoi ordini. Ripete il fante Martin: «Distruggete tutto quello che si muove»; disse il fante Flynn: «Eliminale tutti»; mormorò il fante Lamartina: «Sparate a chiunque respiri». I giovanotti si mossero con impeto e diligenza, attaccarono sul fare del mattino e non risparmiarono nulla, né i bufali d'acqua né i maiali, e quando venne compilato il Kia, il rapporto dei Killed in action, degli ammazzati in combattimento, furono contati 128 «vietcong», ma c'erano distesi nei fossati tanti vecchi, delle ragazze, delle madri, dei bambini. Spiegò il capitano Medina ai giudici della Corte marziale: «Ho in mente che mi fu chiesto se dovevano tirare anche alle donne e ai piccoli. Risposi di no, che usassero un po' di buonsenso. Se un individuo cerca di colpirti e ha un'arma, allora, sì, si può sparare. Se sta scappando e non si ferma, si tira un colpo a vuoto, di avvertimento». Ammise che lui stesso aveva puntato a una donna, ma stava per lanciargli una bomba a mano e, forse, come qualcuno testimoniò, era responsabile anche della morte di un bimbo, ma in quella confusione, dopo aver gridato «prendetelo, prendetelo», non era chiaro se aveva poi detto «non ammazzatelo» oppure «uccidetelo». Del resto, il suo diretto subordinato, il bravo tenente William Calley, chiamato «Ruggine» per i capelli rossicci, il fatto Io aveva illustrato con esattezza al presidente del tribunale. Gli era stato chiesto: «A chi sparavano i soldati?». «Al nemico, signore». «Alla gente?». «Al nemico, signore». «Non erano esseri umani?». «Sì, signore». «Avete visto donne?». «Non discriminavo, non distinguevo, signore». «Aveste visto bambini?». «Non so, signore. Non ho riflettuto in termini di uomini, donne, bambini: erano classificati tutti allo stesso modo: nemici da distruggere». Mary McCarthy sostiene che, quella del Vietnam, «era una guerra di bianchi sciagurati e falliti, di negri di città, di chicanos come Medina, di italiani, di polacchi e di portoricani poveri», che si battevano, insomma, senza sapere il perché, in un mondo lontano, e ancora più triste del loro. Vorrei che, con Ernie Medina, il colloquio non avesse il tono di un interrogatorio, ma per quanto mi sforzi, mi pare che l'esercizio sia troppo difficile. In ogni modo, non era nelle mie intenzioni. Signor capitano, lei è ancora in servizio? «No, signore». Che cosa fa adesso? «Ho dato le dimissioni dalla carriera e sono entrato nella Youngstron Helicopter Corporation, nel Michigan». Chi l'ha giudicata? E come è finita? «Sono stato processato dalla Corte marziale suprema perché implicato nella strage di My Lai. Mi hanno assolto da ogni accusa». Lo considera un massacro o un'operazione militare? «La manovra fu condotta in base a informazioni fornite da vari uffici del governo. Allora, era considerata una mossa strategica, ma quando se ne occuparono i giornali e dopo le inchieste svolte dalla Commissione Pearce, scoprimmo che quel giorno ci fu un massacro». Perché, signor capitano, la chiamavano Mad Dog, Cane Pazzo? «Beh, niente a che fare con le mie vicende. E' uno di quei nomignoli che ti vengono affibbiati dai camerati. C'era dell'antagonismo fra me e un altro collega, eravamo ottimi amici, ma per via dell'addestramento facevamo la gara, ci tenevamo alla bella figura, capisce? Fu lui che mi affibbiò quel soprannoine. Poi lo scherzo continuò al circolo, e venne infine raccolto dalle truppe. E così mi è rimasto appiccicato». Lei crede che un soldato debba ubbidire a qualunque ordine? «Ritengo che per ottenere un minimo di organizzazione si debba avere un certo livello di disciplina che imponga ai subordinati di eseguire le disposizioni ricevute. Uno deve comprendere, se sente che quello che gli viene comandato di fare è sbagliato, deve capire che può scegliere, ma il rischio è tutto suo». A proposito di My Lai: Nixon disse che offendeva la dignità dell'America. Cosa ne dice? «E' un<i domanda molto difficile. Penso che in combattimento, ma anche in ogni altro tipo di lotta, la soppressione di vite innocenti è una vergogna che ricade non solo sulle forze armate, ma su tutto il Paese». Di chi è la colpa di questa impresa? Del tenente Calley? Di lei, signor capitano? Del colonnello Barker, che comandava il reggimento? O del generale Westmoreland? O di tutti insieme? «Il tenente Calley permise ai suoi uomini di andare non solo oltre le direttive che aveva ricevuto da me, ma anche al di là di quelle che gli erano state impartite durante l'istruzione. Per quanto riguarda la responsabilità, non si può attribuire al Presidente o al comandante il gruppo di assalto, o a Westmoreland: dipende piuttosto dai tipi che si arruolavano. Avevo sotto di me un certo numero di quelli che vengono chiamati "i centomila di McNamara". Non possedevano né l'attitudine mentale né i requisiti necessari a superare il benché minimo esame previsto per essere ammessi nella fanteria. Questo giudizio si può estendere anche ai loro diretti superiori». Chi è, secondo lei, il tenente Calley? Un eroe, come qualcuno ha detto, una vittima, un malato, o un assassino? «E' imbarazzante, è grave; temo di non potere proprio rispondere. Ho sentito anch'io parlare di Calley in tanti modi, ma la causa è ancora sotto revisione. Può darsi che gli commutino il verdetto, ma può anche accadere che debba subire un nuovo dibattimento. Credo che per me sia meglio evitare di parlare, dato che non è escluso che io debba comparire ancora come teste». Le Nazioni alleate, alla fine del conflitto, processarono a Norimberga i generali nazisti colpevoli di crimini, e anche i giapponesi, e furono impiccati. Calley è libero e lei, mi scusi, non ha avuto grandi fastidi. Perché? «Due sono le cose da prendere in considerazione: la condanna del generale Yamashita, ad esempio, da parte degli Stati Uniti, ha rappresentato una specie di fantasma per coloro che hanno preso parte al mio processo. Si può quasi tracciare un parallelo fra le due sentenze. Io ero l'ufficiale al comando della compagnia coinvolta nel massacro; Yamashita stava a capo dei reparti compromessi in una strage. Ma vi è una differenza: allora era appena finita la guerra, e l'America aveva vinto, a quel tempo vigeva la convinzione che chi ha i gradi è responsabile di qualunque cosa facciano i suoi uomini. In tutta la nostra storia, penso che questa sia stata la prima volta che la casta militare si è trovata a dover affrontare un problema come questo». Il tenente Calley si considera un buon soldato. E lei, signor capitano? «Ho passato sedici anni e mezzo in servizio. Sono stato molto orgoglioso di indossare l'uniforme. Penso di non avere screditato la divisa». Come si comportano gli altri con lei? Le scrivono? E che cosa le dicono? «Ho cercato di scomparire, per concentrarmi nel mio nuovo lavoro. Ho voluto iniziare un'altra esistenza per me e per i miei. Cerco di non parlare con nessuno di quanto mi è accaduto; quelli che mi stanno attorno, hanno la sensibilità di non toccare l'argomento». Signor capitano: lei sogna mai? «Sì, donne No, non soffro di incubi notturni. Non sogno mai quello che avvenne a My Lai 4. Dormo bene, non ho incubi». E' religioso? «Sono stato allevato dai nonni, che erano ferventi cattolici. Si recavano a messa tutte le mattine presto. Da adolescente presi in seria considerazione l'idea di farmi prete. Non ho mai smesso di andare in chiesa la domenica ». Per quello che è accaduto, lei ha dei dubbi, dei rimorsi? Darebbe ancora adesso le stesse disposizioni? «Sarebbe meraviglioso potere intuire sempre quello che accadrà. Sono sicuro che se fossi stato in grado di immaginare ciò che è avvenuto a My Lai, nessuno ora ne discuterebbe». Signor capitano, lei pensa di essere un buon esempio per gli allievi di West Point? «Credo che la mia esperienza, sottoposta all'esame di un aspirante ufficiale o di un cadetto, possa rappresentare un valido argomento di analisi. Credo possano trovarvi una lezione dalla quale imparare qualcosa. Dovrebbero soprattutto pensare: Dio non voglia, perché potrebbe accadere anche a me». I componenti della Corte ricevettero molti scritti; uno diceva: «Una foglia non può diventare gialla senza che lo sappia tutto l'albero». Ignoro che cosa Ernest L. Medina, il vecchio Ernie, tenga, o nasconda, dentro di sé; è controllato, attento, intelligente, e ha capito subito che l'US. Army non poteva condannare se stessa. Ignoro anche che cosa sia, in realtà, quello che noi chiamiamo «un peso sulla coscienza». Forse, per qualcuno, non è un impaccio, non è un affanno eccessivo. Enzo Biagi

Luoghi citati: America, Colorado, Messico, Michigan, New York, Norimberga, Stati Uniti, Usa, Vietnam