"Morte a Venezia,, da Mann a Britten di Massimo Mila

"Morte a Venezia,, da Mann a Britten In prima italiana al teatro "La Fenice 99 "Morte a Venezia,, da Mann a Britten E' stata eseguita dall' "English Opera Group" - L'orchestra magistralmente diretta da Stewart Bedford, che ha sostituito Britten - Grande interpretazione del tenore Peter Pears (Dal nostro invialo speciale) Venezia, 21 settembre. Silurato finalmente dagli sforzi assidui della contestazione, il Festival di musica contemporanea della Biennale, ch'era una delle pochissime occasioni offerte alla vita musicale italiana di uscir fuori dalla cerchia del vecchio e del cretino, per dirla con Arrigo Boito, «La Fenice» ha procurato un parziale risarcimento invitando «The English Opera Group» a tenere le prime rappresentazioni sul continente dell'ultima opera di Benjamin Britten, Morte a Venezia, eseguita nel giugno scorso a Aideburgo, città natale del compositore, e subito dopo al festival di Edimburgo. Il canto Chi legga il celebre racconto di Thomas Mann, reso popolare dal recente film di Visconti, si domanda con stupore come sia possibile portarlo sul teatro, e per di più in musica. II lettore superficiale, che in un romanzo cerca subito se sono molte le lineette brevi del dialogo, si sente cascar le braccia. Pochissime frasi, e per lo più occasionali, pronuncia il protagonista, il celebre scrittore Gustav von Aschenbach, che nel corso d'una vacanza a Venezia s'innamora d'un bellissimo giovanotto polacco, e muore di colera. Neanche una parola spiccica il deuteragonista, Tadziu. Tutto si svolge attraverso descrizioni: descrizioni del mondo esterno e descrizioni approfondite di quel che avviene nell'animo del protagonista. Insieme con la sua librettista Myfanway Piper, Britten ha risolto mollo bene il problema, incatenando in 2 atti una serie di 17 scene che vedono quasi sempre il protagonista in primo piano, ora monologante con se stesso (e allora il suo canto è accompagnato dal solo pianoforte), ora impegnato negli incontri col mondo esterno, fedelmente dedotti dal testo, senza alcuna omissione. Un rapido sistema di proiezioni o di sommari elementi scenici (un accenno di gondola, la poltrona del barbiere, i tavolini del ristorante o del caffè, il banco dell'ufficio turistico) crea di volta in volta l'ambiente, senza interrompere il flusso del racconto musicale. Ovviamente, un grande partito è tratto dai pochi inviti alla musica che il romanzo stesso presenta: il sinistro spettacolo dei suonatori ambulanti nel giardino dell'albergo, e l'incubo notturno di Aschenbach, traversato dal «basso, suadente suono del flauto» e da «un certo urlo spinto fino all'acuto», costituito dalle vocali del nome Tadziu. Questo infatti diventa una specie di Leitmotif corale dell'opera. E altri motivi conduttori presenta la finissima partitura orchestrale, di natura cameristica, anche se gli strumenti sono assai più numerosi che nel «giro di vite»: ma ben raramente usati insieme in maniera massiccia, bensì in monteverdiane distribuzioni parziali. C'è l'ampio motivo del mare, c'è il motivo del colera, strisciante attraverso clarinetto e tuba, c'è la serie di dodici note che si riferisce alla stanchezza creativa di Aschenbach, c'è il motivo di Venezia sulle cinque note della parola «serenissima», c'è la saltellante percussione di xilofono che accompagna le apparizioni del giovane Tadziu. Senza insistenza wagneriana, questi motivi ambientano e dipanano la vicenda, con l'aiuto d'un orchestra finissima che sa dire tutto, dal rapimento estatico prodotto dall'apparizione della pura bellezza, alle più episodiche e pettegole scenette di strada, come quella in cui una giornalaia offre ripetutamente «La Stampa, La Stampa!» in una calle. E Aschenbach compra puntualmente «La Stampa». (Questo omaggio al nostro giornale è — ben inteso — tutto invenzione della coppia Piper-Britten). Voce sola Sopra questa partitura squisita fino all'estenuamento, il protagonista insedia 1 suoi monologhi, con interventi di personaggi esterni marginali e del vero antagonista, che non è il giovane Taddeo, così scipito nella sua immobile bellezza, bensì sette persone affidate a una sola voce: il viaggiatore che nel prologo mette addosso a Aschenbach la voglia dell'evasione, l'anziano e osceno bellimbusto incontrato sulla nave durante la traversata, il gondoliere misterioso, il direttore dell'albergo, il barbiere, il capo dei suonatori ambulanti e (discutibile aggiunta di Myfanwy e Britten) Dioniso. Tutti sono un personaggio solo: la morte che si avvicina ad Aschembach roteando lentamente come un sinistro uccello di rapina. Il famoso declamato vocale di Britten, quel parlar cantando che discende in linea retta da Purcell, ma è fecondato dalle più ibride mescolanze — da Wagner ad Alban Berg, da Mussorgski a Verdi e Puccini — raggiunge qui la sua perfezione nel senso che, rispetto alle grandi tirate liriche di «Peter Grimes», così impettite nella loro solennità barocca («ora l'orsa e le pleiadi...»), acquista in naturalezza drammatica, diventa duttile e sciolto come un vero linguaggio. La straordinaria parte del protagonista, ma anche quelle degli altri personaggi cantanti sono, sotto l'aspetto della prosodia melodica, un modello di perfezione, grazie alla presenza costante di questo declamato che non è mai rinuncia al canto, come accade così spesso negli adepti moderni del «dramma musicale», ma è sempre, verdianamente, nutrito di consistente invenzione musicale. Un capolavoro, dunque, un capolavoro nonostante i consueti imprestiti dell'inguaribile eclettismo britteniano? (Qui sono particolarmente messi a partito Wagner e Strawinsky: il primo in certe dolcezze violinistiche da Idillio di Siegfried, il secondo in qualche raro accento drammatico del protagonista, che rinvia a Ocdipus rex, e nel ticchettio ritmico delle due scene dal barbieie. Quest'ultima è quasi una deliberata citazione, come pure la fisarmonica di Petrushka, sapientemente evocala in una delle scene di strada. E dalla scena del cimitero nella Carriera del libertino discende l'idea di accompagnare i monologhi di Aschenbach con una parte di pianoforte solo, riccamente figurata e mossa). Danza Capolavoro? Eh, certo che un gran bel regalo Britten se lo è fatto per i suoi sessant'anni: una prova di maturità pianamente raggiunta, grazie alla quale si può forse parlare per la prima volta di lui come d'un maestro. Non soltanto un artista geniale che azzecca riuscite fortunate come Ciro di vite, ma un maestro che sa chiaramente quello che vuole e sa come ottenerlo. Un capolavoro sarebbe se non fosse guastato da una disastrosa soluzione scenico-musicale: quella di fare esprimere il personaggio muto di Tadziu, e dei suoi compagni di giochi, attraverso la danza. Vuoi che non sia buona la coreografia di Frederick Ashton, troppo reminiscente di ginniche esercitazioni scolastiche, vuoi che non si addica all'adolescenza di Tadziu la figura robusta del ballerino Robert Huguenin (ma io di efebi non mi intendo...), vuoi che, più probabilmente, non si possano l'are interferire direttamente in un'opera due linguaggi distinti come il canto e la danza, ma questa debba esservi collocata nella sua funzione ornamentale o corale, fatto sta che il tremendo balletto dei giochi sulla spiaggia alla fine del primo atto produce un tracollo anche nella sostanza musicale, che invece del sapido e significante declamato individuale si gingilla ora in un manierato madrigalismo di coro maschile c coro femminile alterni, con un curioso sbandamento « mediterraneo » e mascagnano. Un'opera come questa, che potrebbe essere così bella, ha bisogno d'una operazione simile a quella che Puccini fece a Madama Bulterfly. probabilmente le gioverebbe il taglio in tre atti, . on energico sfrondamento dei giochi degli adolescenti in mutandine bianche, simili a reclute alla visita di leva. Splendida è l'esecuzione dell'» English Opera Group», con l'orchestra diretta magistralmente non da Brittten, ammalato, ma da Stewart Bedford. La regìa di Colin Graham è evidentemente creata in stretto accordo con le intenzioni del compositore, e muove i personaggi senza intoppi né ritardi nella difficile narrazione teatrale di una vicenda tutta interiore. Delle scene di John Piper s'è detto la funzionalità, i costumi di Charles Knode sono migliori per le fìgurette di sfondo nel gusto dell'art nouveau (signore sulla spiaggia in gonne lunghe, veli c cappellone), che non per il protagonista e gli altri personaggi attivi della vicenda. Tutti i numerosi cantanti sono evidentemente istruiti a dovere nella difficile arte del vocalismo britteniano, ma su tutti si innalza di molti cubiti l'intramontabile tenore Peter Pears, sulla cui voce soavemente modulante, all'occorrenza melliflua, il compositore ha, da alcuni decenni, inventato il suo tipico modo di cantare. Pears è anche un grande attore per comporre il personaggio manniano nella sua indecifrabile ambiguità di grand'uomo sulla soglia della catastrofe, baciato dal successo e minato dalla frana della sua sostanziale inconsistenza. E a Pears, nell'assenza del compositore, sono andate le ovazioni del pubblico foltissimo, che all'opera ha decretato non più d'un contegnoso successo. Massimo Mila

Luoghi citati: Edimburgo, Venezia