Padri della patria in fuga di Vittorio Gorresio

Padri della patria in fuga DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943 Padri della patria in fuga Badoglio trascurò di "passare le consegne", il capo della polizia seppe dell'armistizio ascoltando la radio - Già prima il comandante generale dei carabinieri, di fronte all'eventualità d'un colpo di mano tedesco, aveva proposto di rinforzare "la ronda notturna" dei militi - L'on. Vittorio Emanuele Orlando, a 83 anni, rifiutò di rivolgere un appello agli italiani "per non compromettere l'avvenire" - La buona vendemmia del maresciallo Caviglia Roma, settembre. Scappato il re coi suoi generalissimi, l'Italia rimase da un'ora all'altra senza governo perché Badoglio trascurò anche di « passare le consegne » a qualcuno. Al momento che egli abbandonava il ministero della Guerra prima dell'alba del 9 settembre, gli corse dietro Ambrosio a domandargli: « Maresciallo, vuole lasciare qualche ordine? ». « Certo », rispose il marchese del Sabotino e duca di Addis Abeba, e per qualche minuto restò assorto in pensieri, ma poi disse: « No, nulla ». Andò ad un ascensore, scese in cortile e salì in macchina per raggiungere Vittorio Emanuele che di pochi istanti lo aveva preceduto nella fuga verso Pescara. Tutti nascosti Pare che egli avesse fatto cercare il ministro dell'Interno Federico Umberto Ricci per conferirgli un interim, ma sappiamo che Ricci non fu trovato subito: in quelle ore antelucane più o meno tutti i membri del governo erano da considerare dispersi essendosi nascosti per la paura che i tedeschi li catturassero. Comunque Ricci poi rifiutò l'incarico quando più tardi fu scovato, ed anzi diede le dimissioni da ministro per protestare che nessuno lo avesse preavvertito dell'armistizio. Peraltro, come si legge nei Ricordi di Raffaele Guariglia (Napoli 1950, pagina 648) la maggior parte dei ministri era stata tenuta all'oscuro delle trattative « per maggior garanzia di segreto ». Nemmeno il capo della polizia Carmine Senise ne aveva avuto sentore. Seppe la notizia ascoltando il giornale radio la sera dell'8 settembre: « Poiché il sacrificio personale non sarebbe servito a nulla in quella notte, accettai il consiglio del mio fedele amico Leopoldo Zurlo di passarla nella caserma della legione allievi carabinieri » fefr. C.S. Quando ero capo della polizia, Roma 1946, pagg. 248-9). All'alba tornò a casa, fece toletta, e con l'amico Zurlo andò in ufficio: « Giunti che fummo al Viminale, apprendemmo che la notte sua maestà il re, la reale famiglia, il maresciallo Badoglio e lo stato maggiore erano partiti da Roma per ignota destinazione ». « Sai che hanno fatto? — gli disse infatti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Pietro Baratono in un tono di mezzo scherzo — se ne sono andati! ». Il solo ministro che avesse saputo in tempo dell'armistizio era naturalmente quello degli Esteri, Raffaele Guariglia di Vi- tuso. Nemmeno lui, peraltro, aveva avuto da Badoglio un trattamento di gran fiducia. La mattina dell'8 settembre, andato al Viminale a conferire con il capo del governo « su argomenti di ordinaria amministrazione », egli era stato leggermente informato della visita notturna fatta a Roma dal generale americano Maxwell D. Taylor. Sembra però che Guariglia non ne fosse rimasto allarmato, almeno stando ai suoi Ricordi ove si legge (pag. 704): «Me ne tornai a Palazzo Chigi, e poiché da più di un mese non mi era stato possibile fare una passeggiata a piedi, rinviai tutti i miei appuntamenti del pomeriggio a dopo le 18, per potermi recare in ufficio dopo aver fatto un giro per Villa Borghese ». Troppo bello Entrò difatti a Palazzo Chigi che scoccavano le sei del pomeriggio, « ma non avevo avuto nemmeno il tempo di sedermi al mio tavolo quando vennero a dirmi che dovevo recarmi d'urgenza al Quirinale, dove era stata convocata una riu¬ nione con il re e il maresciallo Badoglio (...). Appena entrato trovai nell'anticamera il maresciallo. Corsi da lui, ansioso di notizie. Egli mi rispose testualmente: " Siamo fottuti ". In quel momento si aprirono le porte della sala dove ci aspettava il re ». E' un racconto così bello che parrebbe inventato, ma ce lo autentica la firma di Guariglia. Lui stesso, d'altra parte, rammenta alcuni preziosi precedenti che bisogna non vadano perduti. Il giorno che egli si era impaurito per la famosa piccola notte di San Bartolomeo minacciata dai tedeschi dopo il 25 luglio, aveva convocato i due generali Giacomo Carboni e Angelo Cerica, rispettivamente comandanti del corpo motocorazzato difensore di Roma e dell'Arma dei reali carabinieri: « Il generale Carboni rispose che non v'era possibilità di evitare che i tedeschi si fossero impadroniti del ministero degli Affari Esteri con un improvviso colpo di mano, e che soltanto in un secondo tempo le forze armate da lui comandate li avrebbero potuti attaccare e scacciare. Il generale Cerica mi dichia- rò che egli non poteva prendere alcun provvedimento, tranne quello di dare ordini perché la ronda notturna dei carabinieri fosse rinforzata, e cominciasse un'ora prima »: ed anche questo può sembrare inventato, ma è scritto in nota alla pagina 653 dei già citati Ricordi del barone di Vituso. Durante i quarantacinque giorni il nostro ministro degli Esteri aveva comunque fatto affidamento sul Vaticano: « Consideravo della massima importanza mantenere io stesso personalmente i rapporti con il segretario di -Stato cardinale Luigi Maglione, ciò che feci in verità con i migliori possibili risultati, andando io stesso molte volte al Vaticano la notte "per segrete vie" (...). Egli era una delle poche persone che "sapeva ", giacché io informavo di tutto solo il mio caro maestro ed amico Salvatore Contarmi (...) e il cardinale Maglione, dal quale mi recavo assai spesso nascostamente di notte per tenerlo al corrente di ciò che accadeva, per ricevere il conforto della sua intelligente amicizia, e per mantenere un indiretto contatto con i rappresentanti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna » (op. cit., pagg. 648, 701 e 739). Oltre che di una improbabile mediazione del papa Pio XII, Guariglia sembra che facesse conto anche delle possibilità carismatiche del vecchio uomo di Stato e quasi padre della patria Vittorio Emanuele Orlando. Lo aveva difatti pregato « di tenere un discorso alla radio per far comprendere al popolo italiano la gravità della situazione, ed esortarlo ad affrontarla virilmente, senza illusioni e senza impazienze. L'onorevole Orlando era a parer mio — (cfr. Guariglia, op. cit., pag. 649 n.) — la persona più adatta a parlare francamente ed eloquentemente al nostro popolo, facendo appello al suo spirito di sacrificio ed alle sue qualità spirituali, così come egli vi aveva fatto appello con ottimi risultati, che tornano a suo onore, dopo la sciagura di Caporetto ». L'ultima carta Ma Orlando si era tirato indietro, non volendo a 83 anni legare le proprie fortune politiche al carro traballante del governo Badoglio. Egli difatti disse a Guariglia che « non poteva tenere il discorso che gli era stato chiesto, perché non intendeva compromettere l'avvenire ». Insomma il nostro povero ministro degli Esteri aveva avuto poche carte in mano, tenuto come era in disparte da Badoglio, dai militari e dai politici. Se ne accorse lo stesso Vittorio Emanuele: «Quando nell'agosto 1944 rividi sua maestà il re {cfr. Guariglia, op. cit. pag. 713) egli mi chiese perché non mi fossi recato la notte sul 9 ad ministero della Guerra, e non fossi quindi partito con lui e con Badoglio. Gli risposi che nessuno mi aveva informato né dell'andata dei sovrani al ministero della Guerra, né tan¬ to meno della loro partenza da Roma ». Badoglio poi se ne scusò affermando che gli avevano detto che Guariglia quella notte era stato irreperibile. Non era vero, ma sarebbe anche potuto essere poiché perfino il generale Cerica comandante dei carabinieri si era allora nascosto, e per trovarlo bisognava « telefonare ad una persona che telefonava ad un'altra persona, la quale sapeva come fare per avvisarlo ». Così racconta nel suo Diario (Roma 1952, pag. 442) il maresciallo d'Italia Enrico Caviglia. Però egli stesso ammette che, quando poi lo vide, Cerica non gli fece «una cattiva impressione, sebbene fosse tinto, e con capelli periferici manovrati per coprire la calvizie ». Virtù e difetti Caviglia era un altro che era stato mollato in bando, come si dice in marina. Aveva ottenuto udienza dal re per il mattino del 9 settembre, ma quel giorno alle nove gli telefonò il marchese Francesco Campanari, un generale addetto alla sua persona: « Mi disse che stava al Quirinale ma che non vi era nessuno, nemmeno la guardia, nemmeno i carabinieri, solo i portieri » (op. cit. pagina 429). Caviglia era un uomo d'altri tempi, quasi coetaneo di Orlando (aveva 81 anni) e della sua stagione possedeva virtù e difetti confusi insieme. Essendosi trovato ad essere la più alta autorità militare presente a Roma — per caso — ritenne innanzitutto suo dovere mettersi in contatto col re per tarsi investire di patere. « Telegrafai al sovrano che lo pregavo di autorizzarmi ad assumere il governo, in attesa che la situazione permettesse al capo di governo titolare di rientrare nella capitale. Il mio telegramma rimase senza risposta ». In realtà Vittorio Emanuele gli rispose acconsentendo, ma l'augusto messaggio probabilmente fu intercettato, da chi sa chi, e in ogni modo non pervenne al destinatario. Caviglia intanto aveva mandato a chiamare il famoso generale Giacomo Carboni comandante del corpo motocorazzato responsabile della difesa di Roma. Costui gli era stato descritto come « un volitivo »: « A me pareva di ricordare che fosse uno scrittore di articoli su giornali quotidiani. In genere, questi militari giornalisti sanno sfoggiare il loro genio strategico in forma attraente» (Ibid. pag. 435). Carboni infatti collaborava a La Stampa su argomenti di guerra. Cominciò a esporre al vecchio maresciallo la situazione delle molte divisioni che aveva ai propri ordini: « Mi venne il dubbio — scrive Caviglia, vincitore alla Bainsizza nel 1917 — che fosse un bagolone ». Carboni cercava di fargli apprezzare lo sbarco degli anglo-americani a Salerno, presagendo che esso avrebbe costretto i tedeschi a ritirarsi a Nord di Roma: « Questa è erba trastulla da propaganda », gli oppose Caviglia. Carboni lo informò di essere in buoni rapporti di amicizia col generale americano Maxwell D. Taylor, e che quindi con lui avrebbe potuto combinare uno sbarco a Nord di Roma: « Gli risposi di andarlo a raccontare alle cameriere degli alberghi » (op. cit. pag. 439). Lui Caviglia — comunque — non ritenne di potersi assumere la difesa di Roma. Oltre che uomo all'antica e Collare dell'Annunziata, era anche molto snob, ciò che poco serviva in circostanze in cui sarebbe stato necessario prospettarsi una guerra di popolo, di partigiani, di irregolari. Il 15 settembre egli discese infatti con dignità da Monte Mario congedandosi dai conti Miani che 10 avevano ospitato nella loro bellissima villa di via Trionfale 151; a mezzogiorno fece colazione a Cacciarcila da Giannalisa Feltrinelli, e per il pranzo della sera arrivò in casa dei duchi Salviati a Migliarino di Pisa. « Vi trovo i tre fratelli Salviati, mie vecchie conoscenze, e quella cara Immacolata che a me piace tanto. Molte signorine, tutte carine giovani e piacenti, e la vecchia duchessa che è una Aldobrandini e pare una regina (...). A tavola siamo in ventidue, tutti preoccupati della situazione. Finora i tedeschi si comportano bene e non danno disturbo. La duchessa Salviati Florio mi colma di attenzione con i miei due uomini, e ci dà un abbondante cestino per la colazione » (Ibid. pag. 449). Caviglia insomma tornò a casa al Bricco, sopra Finale Ligure, avendo fatto un viaggio del tutto confortevole, dati quei tempi. Tre giorni dopo salirono al Bricco due suoi ufficiali ambedue nobili — un Aldobrandini e un Pavoncelli — che lo invitavano a tornare a Roma per fronteggiarvi i tedeschi. Ma, alla maniera di Orlando, Caviglia scrisse nel suo Diario in data 20 settembre: « Io non debbo compromettermi, forse posso ancora rendere qualche servigio .all'Italia». Il giorno dopo confermò: « Non è il momento che io vada a Roma. Domani, se il tempo lo permetterà, cominceremo al Bricco la vendemmia ». Ma 11 22 settembre dovette purtroppo annotare: « Pioviggina, niente vendemmia ». Il 26 settembre, fortunatamente: « La vendemmia, qui al Bricco, procede bene. Avremo vino buono e abbondante. I manenti ("mezzadri") saranno contenti ». Vittorio Gorresio