Una dottrina Breznev sulla "libertà limitata,,

Una dottrina Breznev sulla "libertà limitata,, Una dottrina Breznev sulla "libertà limitata,, Nessun giornale sovietico ha pubblicalo neanche una riga dell'ultima e più esplosiva conferenza stampa di Andrei Sakharov ad un gruppo di giornalisti accreditati a Mosca: quella in cui lo scienziato sovietico padre della bomba H ha denunciato le condizioni di spaventosa degradazione in cui sono ridotti gli intellettuali del dissenso prigionieri dei campi di concentramento o internati nei manicomi ed ha invocato l'intervento della Croce Rossa «per fermare la mano dei criminali che stanno iniettando farmaci omicidi agii avversari politici nell'infernale clinica psichiatrica di Dniepropetrovsk» (un particolare, non certo secondario, che è sfuggito purtroppo a l'Unità, nel suo avaro resoconto ad uso italiano). Se non fosse per i corrispondenti della stampa occidentale, che sfidano rigori, interdetti e difficoltà di ogni genere, gran parte della vicenda del dissenso sovietico sarebbe ignota allo stesso mondo libero. L'intellettuale sovietico, che voglia in qualche modo protestare contro le strutture o le intimidazioni del regime, non dispone di alcun mezzo di comunicazione. Le tenui aperture del periodo krusceviano sono ormai tutte bloccate. I pochi fogli di critica o di eresia sono stati soffocati e dispersi: perfino le loro ceneri distrutte (se si pensa alla sorte riservata alle Cronache degli avvenimenti correnti, il bollettino underground di Jakir e Krasin che ha costituito il vero oggetto d'accusa dell'incredibile processo culminato nell'autoflagellazione pubblica dei rei confessi (confessi nello spirito di Buio a mezzogiorno o degli incubi di Orwell). Il margine di tolleranza o di discussione, che Kruscev aveva lasciato alle università o a taluni gruppi culturali, non esiste più: sostituito da un dogmatismo ferreo, attuato con zelo austro-ungarico, con un rigore poliziesco perfino più forte del fanatismo ideologico. Sarebbero inconcepibili, nel clima del conformismo brezneviano, quelle recite pubbliche di poesia, con vene vagamente contestatrici, che caratterizzano i primi euforici momenti del «disgelo» krusceviano. Lo scrittore eretico è completamente tagliato fuori dal proprio Paese. Un solo romanzo di Solgenitsin è comparso in Russia, e solo perché Kruscev lo autorizzò, nel clima della demolizione di Stalin, oltre dieci anni fa, Una giornata di Ivan Denisovie. Se non ci fosse stata la fuga dei manoscritti all'estero, se non avessimo avuto la consacrazione del «Premio Nobel», neppure il caso Solgenitsin avrebbe mai assunto il significato che oggi ha, di protesta e di condanna dell'intero totalitarismo sovietico. Fino a poco tempo fa, Sakharov sembrava protetto dall'immensa aureola di popolarità e di prestigio che gli derivava in tutti gli strati della società sovietica dal ruolo essenziale conquistato negli sviluppi della scienza atomica russa. Ma il crescendo di attacchi e di calunnie, cui si sta ricorrendo in Urss, legittima ogni dubbio su quello che ci riserba il futuro, autorizza i peggiori sospetti sulle prospettive di un nuovo giro di vite, tale da annullare le superstiti ipocrisie del rispetto e della tolleranza formali. Perché? E' questo l'interrogativo che domina in tutto l'Occidente. Da parecchi anni, dagli stessi ultimi anni del vacillante regime krusceviano, le file del dissenso sono state disperse e disanimate. Il numero degli intellettuali eretici è minimo rispetto alla massa degli «accade mici» che firmano tutte le petizioni imposte dal regime, in cambio di vantaggi economici eccezionali, in cambio di un prestigio formale sconosciuto da noi. Le loro possibilità di influì-re nelle aule universitarie o nei dibattiti culturali sono ridotte a zero o quasi. La maggioranza dei suoi esponenti langue nei manicomi o nei «Lager»; l'ondata della repressione si è unita a quella della diffamazione. La restaurazione «strisciante» di Breznev non ha richiesto le vittime fisiche, le tragiche immolazioni dell'epoca staliniana, ma ha condotto a un soffocamento anche più raffinato, anche più perfezionato di ogni voce di protesta o di critica. Fino a consentire l'esibizione ai giornalisti occidentali (ciò a cui Stalin non arrivò mai) dei due imputati, Jakir e Krasin, in vena di autoannientamento. Eppure l'ombra del dissenso sembra dominare e quasi paralizzare la classe dirigente sovietica. Perché? Qualcuno suppone che Mosca voglia lanciare un monito o un avvertimento ai satelliti dell'Europa Orientale, forse agli stessi partiti comunisti delle altre aree geografiche: il dissenso in Cecoslovacchia, per esempio, è tutt'altro che spento, a giudicare dalla recentissima denuncia di Pavel Kohout. Altri avanzano l'ipotesi che il monolitismo ideologico, contro ogni vena di critica delle proprie file, contro ogni richiamo all'umanesimo marxista (sia Sakharov sia Solgenitsin partono dall'accettazione di principio della realtà comunista per correggerla con un processo di democratizzazione all'interno: esattamente il sogno di Dubcek), possa preludere a un inasprimento della difesa sovietica dallo scisma cinese. E non a caso si è parlato di una possibile Cecoslovacchia asiatica! Un punto è certo: la ripresa improvvisa e violenta delle persecuzioni e delle minacce contro superstiti del dissenso rientra in una strategia del regime sovietico che va oltre le esili pattuglie dei sopravvissuti e il loro potenziale proselitismo. Per quanto grossolano e apodittico, Breznev non può sottovalutare il danno che egli arreca all'immagine dell'Unione Sovietica, nella fase culminante della distensione con gli Stati Uniti. D'accordo: il silenzio sul caso Watergate, silenzio rispettosamente mantenuto dalla stampa e dalla tv sovietiche, può autorizzare una qualche speranza in un trattamento di reciprocità dell'altra parte traente. Ma la Casa Bianca non esaurisce l'opinione pubblica americana, diversamente dal Cremlino. Quello che la «ragion di Stato» sconsiglia erompe egualmente dall'interno delle società occidentali. I casi della Germania federale sono eloquenti e ammonitori al riguardo: ogni iniziale prudenza di Brandt, l'artefice della «Ostpolitik», è stata annullata dalle ferme prese di posizione della socialdemocrazia tedesca non meno che dalle durissime proteste degli scrittori tipo Grass o Boll. Nella seconda fase della conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che sta per aprirsi a Ginevra, il tema non potrà non riacquistare tutta la sua drammatica attualità. La libertà degli scambi e della circolazione culturale è inseparabi¬ le dalla distensione: nonostante i distinguo prudentemente affiorati nell'ultima intervista «europeista» dell'onorevole Amendola. Nessuno si illude che un'assi- J se internazionale riesca ad assicurare il confronto fra le varie posizioni culturali all'interno dei Paesi a struttura totalitaria, confronto che in Russia non esiste né punto né poco. Ma tutti hanno il diritto di sperare che la voce unanime dei governi liberi dell'Occidente, e degli uomini di cultura dell'Occidente (anche di quelli che, avendo la possibilità di parlare, preferiscono tacere), riesca almeno a garantire quel minimo di diritti umani all'intellettuale che neppure i regimi autoritari e repressivi dell'Ottocento arrivarono mai a conculcare del tutto, dopo l'inizio della grande stagiono liberale. Si parla tanto di Metternich, sia a Washington sia a Mosca. Noi ci accontenteremmo della tolleranza metternichiana. L'Austria non pretese mai da Silvio Pellico quello che la Russia ha imposto a Piotr Jakir. Giovanni Spadolini Mosca. Andrei Sakharov con In toglie Yelena durante una conferenza stampa (Telefoto Associated Press)