Toscanini

Toscanini TACCUINO DELLA MEMORIA Toscanini Bologna, maggio del 1931. Toscanini, invitato a dirigere al Comunale il concerto commemorativo di Giuseppe Martucci, per il suo dichiarato rifiuto di darvi principio con l'esecuzione degli « inni nazionali », dunque per il suo rifiuto di sonar Giovinezza, è sputacchiato, malmenato e percosso dalle squadracce; ripara difficoltosamente nella sua casa di Milano; respinge ogni accomodamento o compromesso col regime, che vorrebbe ora boicottarlo ed ora conciliarselo e offrirgli scuse. Decide di non dirigere più oltre in Italia, fino alla riconsacrazione repubblicana della Scala bombardata e rifatta, il maggio del 1946. Il primo, il più impegnato, dei commenti di stampa è anche, e tuttavia rimane, il più giusto. All'indomani dell'incidente di Bologna, l'organo della Concentrazione antifascista in esilio, il settimanale parigino La libertà, scriveva, con una punta d'orgoglio ancor più che di rammarico: « Quando dominavano i " sovversivi ", nessuno chiese mai a Toscanini di sonare Bandiera rossa ». Non perché Toscanini non fosse o potesse anche esser ideologicamente disposto a dirigere un inno socialista. E invero, nonostante l'avventurosa parentesi della sua adesione alla lista mussoliniana per le elezioni politiche del novembre '19, quando lo stesso Mussolini si atteggiava, del resto, a repubblicano-sinistrorso e fingeva di propugnare una restaurazione, appunto repubblicano-sinistrorsa, dei cosiddetti « valori nazionali », sulla falsariga del D'Annunzio fiumano ammiratore e collaboratore dei Soviet, Toscanini nella stessa Milano socialista del '19 non aveva che amici. ★ * Era vicinissimo alla giunta Caldara ed essa a lui nel redigere lo statuto dell'Ente autonomo del Teatro alla Scala. Organizzava, o di buon grado accettava si organizzassero, i concerti dell'orchestra scaligera, da lui diretta, al Teatro del Popolo, congiunta proprietà, se non erro, del Comune e della limitrofa (socialista o socialisteggiante) Società umanitaria. E qui, dopo l'attesa paziente, dopo le lunghe code dal pomeriggio assolato fino alle prime luci del vespro, una folla proletaria e studentesca, pagato il biglietto d'ingresso al prezzo di lire una (per il rimborso delle spese vive, in quanto né l'orchestra né Toscanini percepivano un soldo), qui si entrava rispettosi, trepidi, come si fosse varcata la soglia d'un tempio. Fosse pure un tempio socialista: che, tuttavia, alle stesse autorità del Municipio e del Partito sarebbe parso profanato e sconsacrato, se il concerto avesse avuto carattere politico, se ci si fosse permessi di chiedere a Toscanini questa violazione della sua coscienza e dell'arte sua. Il Toscanini filo-repubblicano, filo-socialista, e successivamente anti-fascista, non sonava, non volle mai sonare, alcun inno, con qualche sorpresa e non senza interpretazioni o denegazioni arbitrarie di suoi ammiratori ed interpreti troppo politici o politicizzati, per ottemperanza inflessibile a quella che il nostro compagno Massimo Mila esattamente, coraggiosamente, lapidariamente, definì una « incrollabile intransigenza artistica ». La quale, peraltro, nella misura medesima che si rivelava essere la precondizione insostituibile della possibilità e del proposito di compiere il suo dovere di artista, di ammettere e di immettere il pubblico alla rivelazione e al godimento della musica da lui interpretata, era, per Toscanini, ad un tempo, un atto di religione e un postulato di libertà. Popolano dell'Oltretorrente parmense, innamorato del suo conterraneo Giuseppe Verdi, perché aveva rifiutato qual si voglia titolo nobiliare ed aveva saputo restar contadino, quantunque si spaurisse, da vecchio, e da proprietario terriero, per i tumulti del '98, indifferente quanto Verdi al successo, alla mondanità salottiera, al denaro e agli onori, Toscanini restò sempre un uomo del popolo, ma rifiutò sempre il demagogismo. E credette che il parteggiare, quanto gli era lecito da cittadino, altrettanto era simoniaco per lui artista. Non aveva bisogno di fingersi per essere, appunto perché lo era, un « lavoratore ». Esigeva il massimo da ciascuno, perché dava tutto di sé alla bisogna cui si dedicasse di volta in volta. Detestava del pari il pressappochismo e il divismo, detestava il mettersi avanti. Ricercava ogni accorgimento per scomparire nella creazione o ricreazione artistica, ma per consentirne al pubblico il godimento integrale, assoluto, senza la minima concessione o distrazione. Fu tra i primi, credo, a voler attuato nel suo come in ogni teatro del mondo il dannunziano « golfo mistico », progettato dal Wagner per il teatro di Bayreuth: quasi a nascondere se medesimo e la sua orchestra, e a favorir nel contempo il rapporto dialettico con i cantanti e la scena. E fu prudentissimo, temperatissimo e tardo nell'accogliere i mass media, i dischi, la radio, la televisione, perché temeva potessero favorire la faciloneria, commercializzare l'arte. * ★ Ma questa, per lui, non aveva, non doveva avere, limiti e « riguardi umani », che altrimenti ne sarebbe uscita contaminata. Perciò, durante la prima guerra mondiale, diresse, con uguale impegno civile, i concerti per i militari ai fronte e i concerti per il pubblico delle città, senza adattarne i programmi alle convenienze dell'ora. Quando, in piena guerra appunto, fu zittito e interrotto all'Augusteo di Roma durante una sua esecuzione di Wagner, troncò netto il concerto e non rientrò all'Augusteo che nel '30, durante la tournée italiana d'un'orchestra da lui creata e lanciata, la N.B.C, di New York. Direttore alla Queen's Hall durante la Coronation season nel maggio-giugno '37, accettò di rendere omaggio nel loro palco ai sovrani di Gran Bretagna, ma si guardò bene dall'intonare il God save the King. E in quei giorni medesimi, scusandosi con Marion Rosselli di non poter intervenire personalmente, le suggeriva il direttore e l'orchestra che salutarono con la Settima di Beethoven la memoria e le bare di Carlo e Nello Rosselli trucidati. Un anno avanti, era stato fra i primi (e i pochissimi, ahimè) ad accogliere l'invito di Alessandro Casati e a : ottoscrivere per la ristampa ddl'Aesthetica del Baumgarten, da offrire a Croce nel suo settantennio. Né durante l'ultima guerra, nell'esilio d'America, adottò un atteggiamento diverso. Inflessibile il suo antifascismo. Ma « incrollabile » la sua « intransigenza artistica ». Qui ancora l'aiutò il suo Verdi. Ne riesumò il cosiddetto Inno delle Nazioni, composto dal maestro per l'esposizione internazionale d; Londra, su parole di Arrigo Boito. E, poiché Verdi aveva inserito nella partitura le note degl'inni nazionali d'Italia e di Russia, si limitò a sostituire alla marcia reale sabauda e all'inno imperiale dei Romanoff, l'Inno di Mameli (quasi precorrendo i fasti e gli eventi della nostra Repubblica) e l'Internazionale, mentre Stalin la rinnegava. Corresse, tutta via, o ritoccò una parola, una sola, del testo boitiano. E presentò cosi agli Alleati, e alle Nazioni Unite, un'Italia che veracemente si autodefiniva, od egli definiva: « mia patria tradita ». Riaffermava la realtà, e la presenza, dell'altra Italia, incarnandola in se medesimo, nell'arte sua, nella libertà e religione dell'arte sua. Opera politica, dunque, anche la sua, ma appunto e soltanto perché attività d'un uomo libero, che, da uomo libero, si sentiva investito d'una religiosa missione e sapeva di non poter attuarla che in regime di libertà. Ancor prima dell'esilio l'aveva dimostrato inaugurando, per invito del violinista ebreo perseguitato Bronislaw Hubermann, nella Palestina allora sotto mandato britannico, la prima orchestra israeliana; rifiutandosi a dirigere in Bayreuth nazificata e a Salisburgo dopo l'« Anschluss »; rifiutando ogni e qualunque invito del governo sovietico. A commemorazione di Toscanini, celebrandosi nel ridotto della Scala il primo anniversario della scomparsa, un suo fedelissimo, l'antifascista e umanista lombardo Camillo Giussani, ricordò come il « Sovrintendente dei teatri dell'Urss » mettesse « a sua disposizione le orchestre del Paese, perché egli vi scegliesse, o vi facesse scegliere, gli elementi migliori; i programmi, a suo arbitrio; le condizioni, quelle che egli indicasse. Toscanini, letto l'invito, prese un modulo di telegramma, e senza un attimo di esitazione vi scrisse queste parole di risposta: " Non dirigerò mai in un Paese dove la libertà di pensiero è conculcata " ». Perciò appunto, un manipolo di giovani antifascisti milanesi, tra i quali Eugenio Colorni, vittima quindi e medaglia d'oro della Resistenza, gridarono, simbolicamente, il suo nome alla Scala pochi giorni dopo l'aggressione di Bologna. Perciò, all'indomani del 25 luglio, sulle mura bombardate e semi-distrutte del suo teatro si scrisse, come una testimonianza di libertà riconquistata, l'invito al rimpatrio di Toscanini. E Toscanini tornò, come tornò a Londra, dopo il mancato concerto al Covent Garden dell'estate '46 (gliene aveva tolto l'animo l'atteggiamento britannico nei confronti dell'Italia e della pace), per accomiatarsi definitivamente dal mondo con i due concerti brahmsiani alla Festival Hall nell'autunno del '53. Vecchissimo, quasi cadente, sembrava non si reggesse. Inciampò nel salire sul podio, mentre il pubblico si era tutto levato in piedi, a riverirlo ancor più che ad acclamarlo. Temetti e tremai, fin quando non ebbe stretto nel pugno la bacchetta direttoriale. Assistetti allora, letteralmente, alla trasfigurazione fisica del maestro. Mi parve fosse d'un subito divenuto non solo più giovane, ma più alto; ebbi l'impressione che manovrasse la bacchetta come un bastone di comando e si slanciasse alla sua bisogna d'arte con la foga d'un maresciallo che cavalchi davanti alle sue schiere, come il Colleoni nella bronzea statua del Verrocchio. Pochi anni di poi, una mattina piovosa d'inverno, ero anch'io presente al commiato, con gl'innumerevoli che riverenti ascoltavano l'orchestra scaligera, sotto la guida di De Sabata, accompagnar invisibile con le note della Marcia funebre di Beethoven il feretro di Toscanini. Poiché mia Madre mi aveva iniziato a lui e alla sua musica, non mi sorpresi quando mi parve di ritrovarmela accanto e mi ripetesse il racconto antico di quando, bambina, aveva veduto staccarsi dal Palazzo Vendramin e risalire il Canal Grande verso Bayreuth e l'eterno la gondola funebre di Riccardo Wagner. Piero Treves