La paura dell'armistizio di Vittorio Gorresio

La paura dell'armistizio DAI GIORNI BADOGLIANI ALL'8 SETTEMBRE 1943 La paura dell'armistizio Era stato firmato a Cassibile il 2 settembre, ma il governo italiano esitava a rivelarlo - Nella notte dal 7 ali'8, il generale americano Taylor cercò inutilmente di definire i particolari dell'aviosbarco alleato: "Basta col vino, devo parlare subito con un comandante responsabile" - Badoglio, svegliato nella notte, cercava di rinviare, lasciando intendere che i tedeschi gli avrebbero tagliato la gola - Così, tra esitazioni e viltà, Roma non fu difesa Roma, settembre. Nonostante la calata di nuove divisioni tedesche giù dal Brennero, la vigilia dell'i settembre 1943 la sorte di Roma era tutt'altro che disperata, cosa che gli angloamericani sapevano benissimo. Ancora molto di recente (cfr. Il Giorno del 29 agosto 1973) il generale Giuseppe Castellano ha raccontato che il suo collega interlocutore Walter Bedell Smith gli aveva fatto notare come « le sette divisioni italiane presenti intorno a Roma avrebbero ben potuto far fronte alle due divisioni tedesche che erano accampate nei dintorni della capitale ». Obbietta allora Castellano che, se numericamente noi eravamo superiori, i tedeschi ci sorpassavano per l'armamento, « ma devo ammettere — oggi egli scrive con qualche ammirazione per la efficienza del servizio informazioni alleato — che aveva ragione lui. Quando io sostenni che le nostre truppe erano in condizioni di inferiorità rispetto a quelle tedesche, non gli dissi cosa esatta ma lo feci per ottenere dagli anglo-americani aiuti che ci sarebbero stati utilissimi ». Le forze in campo Questo significa che quegli aiuti non erano indispensabili, pur se ovviamente sarebbero stati provvidenziali per risparmiarci il rischio, la pena e la fatica di uno scontro con i tedeschi: fossero insomma gli angloamericani a far la guerra, per conto nostro. « In realtà — scrive ancora difatti il generale Castellano — nella zona di Roma erano i tedeschi a trovarsi in difficoltà dinanzi a noi: i nazisti disponevano di una forza di 30 mila uomini con 60 carri armati (...) e noi invece avevamo oltre 50 mila uomini con 200 carri armati ed adeguate artiglierie ». Egli, ad ogni buon conto contrattò da mercante avveduto: « Cercai di attenermi al minimo che era per me indispensabile: una divisione corazzata anglo-americana da sbarcare sulla spiaggia di Ostia, e una divisione aviotrasportata da fare scendere su alcuni aeroporti attorno alla nostra capitale ». Gli fu promessa la 82' divisione americana aviotrasportata « Airborne », ma gli fu detto che formazioni corazzate non erano invece disponibili, e in compenso gli offrirono 100 cannoni anticarro che sarebbero stati sbarcati alle foci del Tevere. Noi però dovevano garantire di mantenere sgombra una fascia di qualche chilometro di qua e di là dal fiume: « Ma non avremmo potuto farlo — scrive Castellano — se non dando inizio ad azioni militari contro i tedeschi ». E' come dire che si voleva vincere la guerra senza sporcarsi le mani a combattere. «D'altra parte — continua Castellano — dei cannoni anticarro in un primo momento avremmo anche potuto fare a meno ». In tale situazione militare di tutto riposo non restava che fissare il giorno della venuta a Roma degli angloamericani, in coincidenza con l'annuncio dell'armistizio già firmato a Cassibile in Sicilia il 2 settembre. E' a questo punto che la storia della nostra capitolazione assurge a vertici di grottesco. Noi volevamo conoscere la data del loro arrivo con un congruo anticipo, mentre gli angloamericani rifiutavano di rivelarla. In base a calcoli induttivi noi ci eravamo fatta l'idea che l'ora X non sarebbe scoccata prima del 12 settembre — se non 15 o 16 — e quanto più. avesse tardato tanto più sarebbe convenuto al nostro governo e al nostro comando, soliti a prendere le cose con comodo. In vagone-letto Difatti, il capo dello stato maggiore generale italiano, generale Vittorio Ambrosio — smessa la grinta che aveva ostentato nei colloqui con Kesselring e Keitel — la sera del 6 settembre se ne andò tranquillamente a Torino in vagone-letto, chi sa a fare che cosa e in ogni modo senza lasciare spiegazioni né ordini. Tornò — in vagoneletto — alle 10 del mattino del giorno 8, che era la festa della natività della Madonna, e nessuno mai seppe qua¬ li motivi lo avessero indotto ad assentarsi dal suo comando in un momento in cui avevano importanza non soltanto le ore ma perfino i minuti. « C'è chi ha riferito seriamente — informa Ruggero Zangrandi a pag. 328 del suo 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano 1964 — che egli avesse dovuto recarsi a Torino per sistemare la mobilia e certi suoi affari familiari; chi ha detto, invece, che la repentina sua missione era connessa alla necessità di rintracciare e distruggere un diario. Anche i giudici del tribunale militare non sono riusciti ad acclarare nulla di meglio e, accantonata la versione della mobilia, si sono attenuti all'altra, del diario (...) un diario di natura compromettente che egli voleva distruggere ». Passi pure la versione del diario, ma il fatto è che nella notte dal 7 all'8 settembre, mentre Ambrosio tornava da Torino addormentato nel direttissimo, a Roma c'era il comandante della 82' divisione americana « Airborne », brigadier generale d'artiglieria Maxwell Davenport Taylor, insieme al colonnello d'aviazione William Tudor Gardiner. Erano venuti come finti prigionieri di guerra per definire i particolari dell'aviosbarco concordato con Castellano, e dove- rosamente furono accolti in palazzo Caprara, sede del nostro stato maggiore in via Venti Settembre, con signorile cortesia. Fecero loro gli onori di casa il colonnello Giorgio Salvi ed il maggiore Luigi Marchesi, che li intrattennero a una buona cena preparata dai cuochi del vicino Grand Hotel (il Times di Londra del 14 settembre 1943 ne riferì il menu, che era brodo ristretto, petti di pollo o scaloppine di vitello con verdure fresche, crepes suzette, vini scelti) fin quando Taylor non protestò: « Basta col vino! Devo parlare subito con un comandante responsabile! » fThe Times, loc. cit). Purtroppo Ambrosio in quel momento stava viaggiando in treno fra Torino e Alessandria, ed anche il vice capo del nostro stato maggiore generale, Francesco Rossi, si fece negare con la scusa che non era al corrente delle intese. Ma per fortuna venne dopo cena il generale Giacomo Carboni che, in quanto commissario straordinario del Sim (Servizio Informazioni Militari), certo sapeva della missione Taylor. In quanto anche comandante del corpo d'armata motocorazzato responsabile della difesa di Roma, pare egli ignorasse invece che quel Taylor fosse venuto a Roma a mettersi ai suoi ordini. « Mio generale e comandante — gli disse infatti l'americano sema preamboli — con il vostro permesso vorrei recarmi immediatamente a visitare i campi d'aviazione sui quali dovrebbe scendere la mia 82* divisione, per esaminarne le caratteristiche ed assicurarmi che siano defilati all'azione antiaerea tedesca ». Sono parole riportate da Carboni nelle sue Memorie segrete (Firenze 1955, pag. 271) onde non c'è motivo per dubitare dell'esatta ricostruzione di quel colloquio, che proseguì peraltro in modo un po' paradossale. Tanto per cominciare, Carboni propose un rinvio: « Domani stuelleremo qualche espediente e qualche travestimento, per vedere se sarà possibile farvi compiere le ricognizioni ». Le condizioni « Mio generale e comandante — Taylor scandì lentamente in francese — domani sera la mia divisione comincerà ad atterrare nei cinque campi vicino a Roma, e lo sbarco continuerà per quattro notti. Entro stanotte io devo personalmente constatare se sia possibile compiere questa operazione, perché entro l'alba devo telegraficamente darne conferma, o disdette. al mio comando ». Dice Carboni di avere avuto a questo punto un attimo di sbalordimento che gli fece esclamare: «Impossibile. Domani è il giorno 8, e tutti i nostri piani sono stati regolati sulla persuasione che il vostro sbarco non sarebbe avvenuto prima del giorno 12. Anzi noi si sperava in un ritardo di ancora qualche giorno ». Taylor, reciso: « Impossibile. Tutti i reparti sono già imbarcati. Bisogna parlare subito col generale Ambrosio ». Era il «gigantic bluff» degli alleati. Visto che Ambrosio stava in viaggio sull'espresso della notte Torino-Roma, Taylor pretese di parlare almeno con Badoglio; e lo disse con tono perentorio, in inglese, abbandonando bruscamente il francese rispettoso di cui fino ad allora si era servito per conversare con Carboni: « It's imperative that we see Marshal Badoglio at once », è assolutamente necessario che noi vediamo subito Badoglio. In pigiama Così lo accompagnarono mogi nella sontuosa villa di via Bruxelles, dove naturalmente il vecchio maresciallo stava già a dormire. Avvertiti per telefono, i familiari lo avevano comunque risvegliato e Carboni racconta: «Badoglio mi attendeva sulla soglia della sua camera da letto. Era in pigiama, e sul pigiama indossava una vestaglia; si avviò subito con me verso il salotto dove si trovavano gli ospiti americani, chiedendomi intanto notizie ». A sua volta, guardandolo. Carboni si sgomentò: « Non avevo mai visto Badoglio in abbigliamento notturno. Il suo aspetto era desolante: il cranio pelato, il lungo collo giallastro e grinzoso, gli occhi assonnati vitrei e quasi senza ciglia, le spalle ossute e anguste lo facevano assomigliare ad uno strano uccello spennato e pronto per essere cucinato ». Perciò Carboni lo convinse a presentarsi in vesti più decenti: «Vostra eccellenza non può mostrarsi tanto confidenzialmente a due ufficiali americani sconosciuti. Lei è sempre il maresciallo Badoglio. Si rivesta, si rinfreschi il viso, poi scenderà ». « Ma era per non farli aspettare ». « Non si preoccupi, prenda le cose con comodo, penserò io ad intrattenere gli americani ». Vestito infine a modo in abito doppio petto borghese grigio chiaro, il maresciallo fece il suo ingresso in salotto con la dignitosa cortesia di un illustre padrone di casa. Taylor del resto contraccambiò, ricordando che nell'anno 1921, quando egli ancora non era che un cadetto, era stato passato in rivista dal maresciallo italiano in visita all'Accademia militare americana di West Point. « Simpatica figura di soldato », lo apprezza difatti Badoglio nel suo libro L'Italia nella seconda guerra mondiale (Milano 1946, p. 103), ed è una valutazione di quelle che si potrebbero attribuire ad un qualunque colonnello Buttiglione nelle rubriche radio del tipo di «Alto gradimento». In concreto, però, la conversazione andò male. Dopo di essersi vantato di aver vinto due guerre e di essere stato personalmente lui ad «atterrir» Mussolini, nel suo cattivo francese Badoglio chiese a Taylor di ritardare l'annuncio dell'armistizio e di rimettere l'aviosbarco a da¬ ta da destinarsi: « Le truppe italiane — mentì — sono nella impossibilità di difendere Roma. Se l'armistizio viene annunciato, i tedeschi occuperanno immediatamente la capitale ». « Avete più paura dei tedeschi che di noi? — repli¬ cò Taylor — Badate che se non annunciate l'armistizio che avete firmato ormai da cinque giorni, a noi non resterà che bombardare Roma ». « Perché volete bombardare la capitale di un Paese che sta cercando di aiutarvi? », domandò lamentoso Badoglio, il vinto che si illudeva di andare in soccorso del vincitore. Racconta Melton S. Davis in Chi difende Roma? (Milano 1973, pag. 369) che a questo punto il maresciallo « si produsse nel suo gesto abituale, portandosi la mano alla gola come per indicare che i tedeschi gli avrebbero tagliato il collo ». Anche al momento del congedo chiese la comprensione di Taylor: «Lei ha un bel dire, ma domani i tedeschi saranno qui ». Infine, proprio sulla porta, lo ammonì a stare attento: « Altrimenti i tedeschi avranno la mia testa ». Insomma «non seppe nascondere (Carboni, op. cit, pag. 275) la sua paura fìsica ». A Taylor non restò che trasmettere al suo comando il messaggio convenuto in due parole («situation innocuous ») per disdire l'aviosbarco, e perciò V 82' divisione americana «Airborne» che il generale italiano Carboni avrebbe avuto l'indomani ai propri ordini non prese il volo alla volta di Roma. Dagli aeroporti siciliani erano già decollati 62 apparecchi ma per radio li richiamarono a terra, e così fummo privi di un aiuto che anche da un punto di vista politico e psicologico sarebbe potuto essere decisivo. Averlo noi allora rifiutato non si spiega se non pensando a una viltà degli alti comandanti militari del tempo e dello stesso sovrano. Costoro infatti, dopo un « Consiglio della Corona » tenuto in Quirinale nel pomeriggio dell'8 settembre, scapparono tutti puntualmente. Vittorio Gorresio Roma, settembre 1943. Soldati e civili si preparano alla difesa della città: all'estrema destra Raffaele Persichetti, che sarà tra i primi caduti