Ragazzate e crimini

Ragazzate e crimini IN CARCERE PER UN MELONE Ragazzate e crimini Roma, 26 agusto. 11 ministero dell'Interno ha diffuso un comunicato sulla vicenda dei cinque minorenni di Tortona (Alessandria) arrestati per aver rubato un melone. Diamo integralmente il testo del comunicato che è stato letto durante le edizioni delle 13 e delle 13,30 del giornale radio: «Il ministro dell'Interno, Taviani, ha incaricato il prefetto di Alessandria di svolgere un'immediata inchiesta sull'inqualificabile episodio e di riferire al ministero. «I cinque arrestati — tre studenti e due operai fra i 14 e i 18 anni — sono rinchiusi da 9 giorni nel carcere minorile di Torino e domani dovrebbero essere processati per direttisima ». In Italia basta rubare un frutto per finire in prigione. Ecco uno dei maggiori assurdi cui conducono le nostre superatissime leggi penali. Ne soffre la stessa credibilità della giustizia: perché il popolo si riconosca in essa, occorre che la reazione dell'ordinamento nei confronti illeciti, risulti sempre proporzionata alla loro entità. La materia dei reati contro il patrimonio è forse la meno rispettosa di questa fondamentale esigenza d'adeguatezza: comportamenti particolarmente gravi sono perseguiti in modo troppo blando, comportamenti praticamente innocui sono colpiti con severità estrema. L'impossessamento del misero peculio di un pensionato è trattato più o meno alla medesima stregua della sottrazione di un'arancia dalle vetrine di un mercato fornitissimo o dall'albero di un agrumeto rigoglioso. L'amara esperienza l'hanno già vissuta in molti: disoccupati mossi dalla fame, massaie assillate dal problema di far quadrare i conti della spesa, turisti rimasti con pochi quattrini in tasca. Questa volta lo choc dell'arresto in flagranza, delle notti in cella e del trasferimento in carcere è toccato a cinque ragazzi incensurati, sorpresi a mangiare un melone appena raccolto in un campo di Viguzzolo. Verosimilmente non era il primo episodio del genere: il proprietario del fondo stava sul «chi va là», tanto da informarne subito i carabinieri, arrivati in tempo per procedere all'arresto dei responsabili nella flagranza del reato. Se un fatto di questo tipo fosse accaduto in Inghilterra, tutto si sarebbe risolto nell'immediata comminatoria di una sanzione pecunaria, accompagnata da una bonaria ramanzina del giudice; se fosse accaduto in Germania, il magistrato penale avrebbe archiviato l'episodio, data l'innegabile tenuità delle sue caratteristiche, e i colpevoli se la sarebbero cavata con la rifusione del danno al demandante. In un caso come nell'altro, l'epilogo sarebbe stato aderente ai connotati di fondo della vicenda: una ragazzata, sia pur un po' spavalda, ma nulla più. Invece, la ragazzata si è trasformata in un autentico dramma per cinque famiglie, un dramma che non potrà non influire negativamente sull'animo dei protagonisti, di certo esacerbati per tanto ed incomprensibile furore. Nemmeno il perdono giudiziale, che probabilmente concluderà la triste storia, varrà ad attenuare la «portata diseducativa» insita in ogni forma di brusca e cieca repressione. Ad evitare il ripetersi di simili accadimenti, ancor più preoccupanti quando la spinta al piccolo furto viene dalla miseria o dal bisogno, urgono un paio di riforme ben precise: la prima, che riveda integralmente la disciplina del furto e delle sue circostanze sia aggravanti sia attenuanti; la seconda, che delimiti meglio i poteri della polizia giudiziaria in tema di arresto nella flagranza del reato. Lo prova il fatto che i cinque arresti di Viguzzolo, sono stati resi possibili dal confluire delle attuali norme in materia di furto e di arresto in flagranza, le une e le altre non in armonia con l'attuale realtà sociale e con i principi costituzionali che tutelano la libertà personale e l'uguaglianza dei cittadini. Un qualùnque agente di polizia giudiziaria ha oggi la facoltà di arrestare «chi è colto in flagranza di un delit¬ to per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a due anni»: cioè, per tantissimi delitti anche non gravi (basta che il massimo della pena previsto in astratto sia di due anni), ufficiali e agenti di polizia possono, piacer loro, arrestare p non arrestare. Poiché il furto semplice è punibile con la reclusione fino a tre anni, ecco che, per ogni furto scoperto in flagranza, la libertà personale del presunto colpevole è alla mercé della polizia giudiziaria. Qualora, poi, il furto risultasse aggravato, l'ar resto in flagranza diventerebbe obbligatorio: ma a chi tocca di stabilire se esistano eventuali circostanze aggravanti o se, caso, mai, le attenuanti siano equivalenti? L'esistenza di meccanismi così discrezionali ed opinabili, spiega come mai il ministro dell'Interno abbia potuto richiedere al Prefetto un dettagliato rapporto sui fatti che hanno, condotto agli arresti in questione, peraltro già convalidati dal pubblico ministero competente. A prima vista, l'intervento del ministro sembrerebbe dar vita ad una interferenza nei controlli demandati all'autorità giudiziaria. Si trat ta, invece, di due tipi di controlli ben diversi: al pubblico ministero, spetta di verificare se l'ufficiale o l'agente di polizia abbia operato l'arresto in presenza delle condizioni minime richieste dalla legge; al potere esecutivo spetta di verificare se, nella scelta tra l'arrestare e il non arrestare, l'ufficiale o l'agente di polizia si sia lasciato influenzare da mo.tivi spuri (simpatia o antipatia, risen timenti, eccetera). Anche a questo proposito, tuttavia, sarebbe auspicabile una modificazione del sistema vigente. Meglio sarebbe che la polizia giudiziaria fosse posta alle esclusive dipen denze della magistratura, cosi da affidare ad essa ogni controllo. La situazione ne guadagnerebbe in chiarezza e linearità. Giovanni Conso (A pagina 2 servizio del nostro inviato a Tortona). Ragazzate e crimini IN CARCERE PER UN MELONE Ragazzate e crimini Roma, 26 agusto. 11 ministero dell'Interno ha diffuso un comunicato sulla vicenda dei cinque minorenni di Tortona (Alessandria) arrestati per aver rubato un melone. Diamo integralmente il testo del comunicato che è stato letto durante le edizioni delle 13 e delle 13,30 del giornale radio: «Il ministro dell'Interno, Taviani, ha incaricato il prefetto di Alessandria di svolgere un'immediata inchiesta sull'inqualificabile episodio e di riferire al ministero. «I cinque arrestati — tre studenti e due operai fra i 14 e i 18 anni — sono rinchiusi da 9 giorni nel carcere minorile di Torino e domani dovrebbero essere processati per direttisima ». In Italia basta rubare un frutto per finire in prigione. Ecco uno dei maggiori assurdi cui conducono le nostre superatissime leggi penali. Ne soffre la stessa credibilità della giustizia: perché il popolo si riconosca in essa, occorre che la reazione dell'ordinamento nei confronti illeciti, risulti sempre proporzionata alla loro entità. La materia dei reati contro il patrimonio è forse la meno rispettosa di questa fondamentale esigenza d'adeguatezza: comportamenti particolarmente gravi sono perseguiti in modo troppo blando, comportamenti praticamente innocui sono colpiti con severità estrema. L'impossessamento del misero peculio di un pensionato è trattato più o meno alla medesima stregua della sottrazione di un'arancia dalle vetrine di un mercato fornitissimo o dall'albero di un agrumeto rigoglioso. L'amara esperienza l'hanno già vissuta in molti: disoccupati mossi dalla fame, massaie assillate dal problema di far quadrare i conti della spesa, turisti rimasti con pochi quattrini in tasca. Questa volta lo choc dell'arresto in flagranza, delle notti in cella e del trasferimento in carcere è toccato a cinque ragazzi incensurati, sorpresi a mangiare un melone appena raccolto in un campo di Viguzzolo. Verosimilmente non era il primo episodio del genere: il proprietario del fondo stava sul «chi va là», tanto da informarne subito i carabinieri, arrivati in tempo per procedere all'arresto dei responsabili nella flagranza del reato. Se un fatto di questo tipo fosse accaduto in Inghilterra, tutto si sarebbe risolto nell'immediata comminatoria di una sanzione pecunaria, accompagnata da una bonaria ramanzina del giudice; se fosse accaduto in Germania, il magistrato penale avrebbe archiviato l'episodio, data l'innegabile tenuità delle sue caratteristiche, e i colpevoli se la sarebbero cavata con la rifusione del danno al demandante. In un caso come nell'altro, l'epilogo sarebbe stato aderente ai connotati di fondo della vicenda: una ragazzata, sia pur un po' spavalda, ma nulla più. Invece, la ragazzata si è trasformata in un autentico dramma per cinque famiglie, un dramma che non potrà non influire negativamente sull'animo dei protagonisti, di certo esacerbati per tanto ed incomprensibile furore. Nemmeno il perdono giudiziale, che probabilmente concluderà la triste storia, varrà ad attenuare la «portata diseducativa» insita in ogni forma di brusca e cieca repressione. Ad evitare il ripetersi di simili accadimenti, ancor più preoccupanti quando la spinta al piccolo furto viene dalla miseria o dal bisogno, urgono un paio di riforme ben precise: la prima, che riveda integralmente la disciplina del furto e delle sue circostanze sia aggravanti sia attenuanti; la seconda, che delimiti meglio i poteri della polizia giudiziaria in tema di arresto nella flagranza del reato. Lo prova il fatto che i cinque arresti di Viguzzolo, sono stati resi possibili dal confluire delle attuali norme in materia di furto e di arresto in flagranza, le une e le altre non in armonia con l'attuale realtà sociale e con i principi costituzionali che tutelano la libertà personale e l'uguaglianza dei cittadini. Un qualùnque agente di polizia giudiziaria ha oggi la facoltà di arrestare «chi è colto in flagranza di un delit¬ to per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel massimo a due anni»: cioè, per tantissimi delitti anche non gravi (basta che il massimo della pena previsto in astratto sia di due anni), ufficiali e agenti di polizia possono, piacer loro, arrestare p non arrestare. Poiché il furto semplice è punibile con la reclusione fino a tre anni, ecco che, per ogni furto scoperto in flagranza, la libertà personale del presunto colpevole è alla mercé della polizia giudiziaria. Qualora, poi, il furto risultasse aggravato, l'ar resto in flagranza diventerebbe obbligatorio: ma a chi tocca di stabilire se esistano eventuali circostanze aggravanti o se, caso, mai, le attenuanti siano equivalenti? L'esistenza di meccanismi così discrezionali ed opinabili, spiega come mai il ministro dell'Interno abbia potuto richiedere al Prefetto un dettagliato rapporto sui fatti che hanno, condotto agli arresti in questione, peraltro già convalidati dal pubblico ministero competente. A prima vista, l'intervento del ministro sembrerebbe dar vita ad una interferenza nei controlli demandati all'autorità giudiziaria. Si trat ta, invece, di due tipi di controlli ben diversi: al pubblico ministero, spetta di verificare se l'ufficiale o l'agente di polizia abbia operato l'arresto in presenza delle condizioni minime richieste dalla legge; al potere esecutivo spetta di verificare se, nella scelta tra l'arrestare e il non arrestare, l'ufficiale o l'agente di polizia si sia lasciato influenzare da mo.tivi spuri (simpatia o antipatia, risen timenti, eccetera). Anche a questo proposito, tuttavia, sarebbe auspicabile una modificazione del sistema vigente. Meglio sarebbe che la polizia giudiziaria fosse posta alle esclusive dipen denze della magistratura, cosi da affidare ad essa ogni controllo. La situazione ne guadagnerebbe in chiarezza e linearità. Giovanni Conso (A pagina 2 servizio del nostro inviato a Tortona).

Persone citate: Giovanni Conso, Taviani

Luoghi citati: Alessandria, Germania, Inghilterra, Italia, Roma, Torino, Tortona, Viguzzolo