La lezione di Matteotti

La lezione di Matteotti Un film importante; per le Giornate di Venezia La lezione di Matteotti La pellicola di Vancini, ispirata a un antifascismo di fondo, non teme di compiere un'analisi critica su raggiri, complicità e debolezze della politica italiana; e spiega perché il delitto, che doveva segnare la fine del fascismo, ne assicurò invece lo stabilimento per tanti altri anni - Mario Adorf incarna un Mussolini dai molleggiamenti gladiatori, Franco Nero è un Matteotti di tutta fiducia (Dal nostro inviato speciale) Venezia, 30 agosto. Il fine di queste «Giornate» veneziane del cinema, che, com'è stato detto e ripetuto, è d'instaurare un nuovo rapporto, in presa diretta, tra autori e pubblico, è stato conseguito fin dalla prima giornata e in misura tale da inquietare gli stessi organizzatori, che sono dovuti correre ai ripari, predisponendo un maggior numero di proiezioni. Per il recensore che non si fosse mosso con qualche oretta d'anticipo, avvezzo agli antichi agi e riguardi, i due film cronologicamente inaugurali della manifestazione, Storia di confine di Bruno Soldini e Family life di Ken Roach, proiettati in due piccole sale del centro, sarebbero risultati inavvicinabili, tanta era la ressa. Tanto pubblico Saltiamo, dunque, a dire del film serale, presentato con populistica solennità in campo Santa Margherita (il cuore organizzativo delle «Giornate») cioè all'aperto; il quale ha fatto la fortuna dei noleggiatori di seggiole, cassette e altro da sederci su, e di finestre e di binocoli: che anche ini il | unum iri" 11 to infinriamente «maggiore del previsto. Chiediamo scusa a Florestano Vancini di aver visto il suo Delitto Matteotti appoggiati a una punta di transenna, tra le mobili frange d'una folla festosamente irrequieta (campo Santa Margherita come piazza Navona), sotto bagliori e clamori di tinelli e televisori accesi, in un clima di pittoresca kermesse, contraria al raccoglimento; e al lettore chiediamo scusa di nostre eventuali inesattezze. Ma d'ora in avanti il sacco dovrebbe assestarsi meglio per i critici: con apposite proiezioni mattutine. Di una cosa non abbiamo dubitato: che // delitto Matteotti costituisca una perentoria lezione di antifascismo, opportuna in questi tempi e del tutto consona allo spirito della rassegna. Vancini è di quei registi che producono relativamente di rado, ma sempre avvedutamente, con una totale affezione ai soggetti e dopo seria preparazione. Nell'intarsio, che è fittissimo, del suo nuovo film, quella preparazione è scoperta; e se va un po' a se» pito del calore e del rilievo, se assume un tono alquanto asciutto e livellato, in compenso chi alla retorica dei sentimenti e delle idee preferisce l'informazione trova il fatto suo in questa ultraparticolareggiata cronistoria che rende implacabilmente ragione, attraverso una lucida analisi di raggiri complicità e debolezze, del perché un feroce delitto che doveva segnare la fine del fascismo (quanti, da quel giugno del 1924, presero a canterellare «Totonno se ne va...»), ne assicurasse invece lo stabilimento per altri quindici anni. Una lezione non sarebbe tale se a chi l'ascolta non restasse qualcosa da fare. Agli spettatori, ai giovani soprattutto, tocca sollevare una così preziosa quantità di dati, una così logica esattezza di raccordi, al clima compendioso e solenne d'una tragedia politica. Pregio del film, l'ordine e la compiutezza dell'esposisione. Se dagli archivi si perdessero i documenti relativi al «delitto Matteotti» Vancini li avrebbe surrogati o poco meno. Avendo voluto trattare la materia così di faccia, gli si parava la difficoltà di dare volti e gesti cinematografici a personaggi, sacri nel bene e nel male, alla memoria degli italiani. Il regista ha superato bene la difficoltà, offrendoci una galleria persino sovraccaricata di personaggi ormai storici ch'entrarono in quella vicenda fatale; e l'ha superata cominciando dal soggetto più difficile, Mussolini, che non solo non è ridicolizzato (ne avrebbe scapitato la serietà dell'assunto), ma ha, Dio ci perdoni, una quasi beltà romulea. Caldi applausi L'attore Mario Adorf, toccato da un mirabile trucco, sostiene l'ardua incarnazione, dove ci sono la mascella, le mani sui fianchi, i molleggiamenti gladiatori e ogni altra caratteristica, ma velate di dignità. Lo stesso è da dire degli altri: modificati appena nel naso, Franco Nero e Umberto Orsini, lentamente riconoscibili, sono un Matteotti e un Dumini di tutta fiducia: il primo forse un po' abbellito, come voleva la sua luce emblematica. E poi ci sono proprio tutti: Turati (non è Moschin? Dev'essere proprio lui), il regista Damiani (Amendola), Gramsci (Cucciolla), Gobetti (Luciano Roffi), don Sturzo, De Gasperi, Gronchi e tanti altri; e sull'opposto fronte, De Bono, Farinacci, Rossi eccetera; e nell'ambiguo mezzo i giudici istruttori Del Giudi¬ ce e Tancredi (un aulico De Sica e Montagnani), oltre, s'intende, re Vittorio Emanuele III: un cast insomma dei più risicati che non ammette personaggi di maniera (salvo uno, Maurizio Arena, un operaio), e che tuttavia giunge a un tal grado di approssimazione da escludere ogni motivo di distrazione e molto più ogni velleità di sorriso. A questa bella riuscita iconografica corrisponde la diligenza espositiva di cui s'è già detto. La vicenda comincia dal famoso discorso del 30 maggio, in cui il deputato socialista col piglio d'un semidio democratico denunciò i brogli commessi dai fascisti nelle precedenti elezioni: continua con l'atroce scena dell'assassinio sul Lungotevere il 10 giugno e il successivo ritrovamento del cadavere disfatto (16 agosto) e si conclude col discorso mussoliniano del 3 gennaio '25, che die' il via alle leggi liberticide. Negli intervalli, che sono il meglio, strapiomba quel complesso di viltà di paura di palleggiamento di colpe onde il mandante e i sicari neri furono vicini a perdersi sotto i colpi dell'opposizione (dove la nota più lucida e profetica è lasciata a Gramsci fautore della rivoluzione operaia); e dall'altra parte quelle fatali esitazioni negli aventinisti, quelle deplorevoli complicità della monarchia, della magistratura, del clero e altre istituzioni, che permisero al duce impaurito e pressato dagli squadristi, il guizzo salvatore della sfrontata accettazione della responsabilità circa l'accaduto. Mentre le sue mascelle si serrano, Gobetti e Amendola moriranno delle conseguenze di battiture, don Sturzo e Turati sono in esilio, Gramsci in carcere: il campo è sgombro. Ma il senso ultimo e consolatore della nobile pellicola è che la libertà è della natura dei fluidi, e, come quelli, non si comprime: la resistenza si nutrirà anche del sacrificio del deputato martire. Se l'oculatezza, la diligenza, la devozione con cui Vancini ha ricostruito il delitto Matteotti sono qualità che escludono l'accendimento del genio, non ne faremo perciò carico al regista, che soltanto in una scena idillica tra Gobetti e la moglie (Ada Marchesini), cara letterata, si è ricordato di sorridere; del rimanente l'importanza dell'assunto e delle sue ripercussioni nel momento attuale, gli hanno consigliato un tenore prono, radente, quasi televisivo. Caldi applausi a schermo acceso nei punti più marxistici. Leo Pestelli

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