Un remoto Perù

Un remoto PerùCOME DIVENTERÀ MODERNO? Un remoto Perù Lima, agosto. Il fascino del Perù sta nella sua stratificazione cronologica per giustapposizione non comunicante. Certo, anche le grandi nazioni europee hanno un passato che affonda nei millenni. Ma si tratta di un passato che cresce su se stesso, come un organismo biologico: la Francia, la Spagna, la Germania, l'Inghilterra. In Perù almeno quattro civiltà sembrano essersi incollate l'una sull'altra, lasciando tracce evidenti nel territorio, senza far corpo. Forse, in Europa, l'Italia è ancora il Paese che più s'avvicina a una simile condizione, col fenomeno degli Etruschi, e con la violenta frattura delle invasioni barbariche tra la civiltà romana e quella cristiana. Quando i quattro fratelli Ayar mossero dai dintorni di Cuzco, e il più manesco e prepotente di loro, Manco Capac (il Grande), pose le basi del favoloso impero degli Incas, queste terre avevano già conosciuto fiorenti civiltà: quella di Chavin, la più antica, di cui si ammirano ancora sorprendenti testimonianze nel villaggio di questo nome, come il celebre lanzón, un monolito di quattro metri e mezzo infisso nella roccia; e le spettrali processioni di sassi rozzamente figurati della piana di Cerro Sechfn, nella valle del Casma. La Porta del Sole è monumento eccelso della civiltà di Tiahuanaca, e cinquantamila esemplari di ceramiche conservate nel museo Larco Herrera di Lima testimoniano della fantasia figurativa vivacissima di cui era dotata la civiltà Mochica: stilizzazione decorativa nella più attenta osservazione della realtà. * ★ Poi arrivano gli Incas e stabiliscono il loro gigantesco impero, ampliato nel corso di tredici regnanti, a carattere rigorosamente tecnocratico. Della ricca espressione figurativa Mochica sopravvive soltanto l'immagine standardizzata del Dio Sole. L'architettura è l'arte degli Incas, la squadra e il filo a piombo i loro arnesi. Un'architettura d'enormi massi di pietra, chissà come squadrati e levigati in modo da farli perfettamente combaciare e incastrare tra di loro, fino ad elevare costruzioni possenti senz'ombra di calce o di qualsiasi malta adesiva. Popolo impoetico, questi Incas, che non sapevano leggere ma sapevano sì contare, per mezzo di certe cordicelle annodate che servivano loro di pallottoliere. Il sistema decimale era il loro pensiero dominante e il censimento la loro attività preferita. In ogni istante il sovrano Inca voleva sapere il numero esatto dei suoi sudditi e pertanto delle quantità di guerrieri, di riso, di bestiame, di lana e d'altri beni di cui poteva disporre. A questo minuzioso fiscalismo va ricondotto lo sbalorditivo sistema di strade che gli Incas avevano stabilito nel loro impero, grande a un certo momento come Italia, Francia e Spagna messe insieme. Strade ciclopiche di pietre spianate, che valicavano burroni a 4000 metri e lambivano il piede dei ghiacciai. A quoi boti, se tanto questa gente non conosceva l'uso della ruota? Per sapere: sapere quello che succedesse in qualunque angolo dell'immenso impero, attraverso una rete di corrieri dislocati in stazioni di passaggio, maratoneti d'alta quota sempre pronti a prendere il volo in un'epica staffetta attraverso le Ande per convergere su Cuzco, capitale dell'impero e ombelico del mondo. Di qualunque disordine, sommossa o fatterello di cronaca nera che turbasse un estremo dell'impero, Tinca a Cuzcc ne veniva informato entro un massimo di 5 giorni. Questo capolavoro d'organizzazione fu sbriciolato, nel 1533, da un centinaio di cavalieri spagnoli scesi dal Nord, sotto la guida di Francesco Pizarro. (Gli Incas non avevano mai visto cavalli né armi da fuoco). L'ultimo sovrano Inca, Atahualpa, che aveva da poco fatto la festa a suo fratello, si comportò con coraggio e con imbelle ingenuità. Restò impassibile sul trono quando un soldataccio spagnolo gli spinse tanto contro il cavallo che la bava dell'animale imbizzarrito spruzzò gli ornamenti d'oro del sovrano. I soldati Inca che avevano rinculato, cedendo alla paura dell'insolito quadrupede, Atahualpa li fece spartanamente giustiziare il giorno dopo. Tutto il prodigioso sistema di comunicazioni e di contributi fiscali su cui si reggeva l'impero incaico fu messo febbrilmente a partito per radunare l'enorme quantità di oro necessaria ad ottenere la liberazione del re. L'assurdo riscatto fu pagato, e ulteriori carichi d'oro stavano ancora af¬ fluendo verso la piazza di Cajamarca quando Pizarro, intascato l'oro, illustrò il nome cristiano facendo strozzare l'ultimo imperatore Inca, il 29 agosto 1533. Gli Spagnoli entrarono a Cuzco il 15 novembre, ma era chiaro che non potevano tollerare quella capitale legata a due secoli di storia gloriosa. Pizarro fondò la città di Lima, vicino alla costa del Pacifico, e vi stabili la capitale del viceregno spagnolo. Si moltiplicarono le rosee facciate di chiese in florido stile di barocchetto coloniale. I sovrani spagnoli saccheggiarono il Paese delle sue ricchezze, la Chiesa cattolica infierì sulle coscienze per sradicarne l'antica fede. Gli Indios ebbero alcuni sussulti di ribellione, già nel '500 con Manco Capac II, di cui gli Spagnoli avevano sperato di servirsi come d'un Quisling e che invece gli si rivoltò, fondando un nuovo Stato Inca nella misteriosa città di Vilcabamba (mai scoperta finora); nel '700, poco prima della Rivoluzione francese, con l'insurrezione di Tupac Amaru IL (Un altro Tupac Amaru aveva già dato del filo da torcere agli Spagnoli; da questi personaggi viene il nome dei moderni tupamaros). Nel 1824, quando con l'assistenza di Bolivar e sotto la guida del generale San Martin, il Perù ricuperava la propria indipendenza, era un Paese nuovo, depauperato delle sue ricchezze e del suo passato, quello che si affacciava sulla ribalta politica del Sud-America. Conserva oggi il Perù la coscienza dei soprusi sofferti durante tre secoli di dominazione spagnola? Be', si direbbe di si. Il linguaggio dei ciceroni turistici che vi spiegano come a Cuzco gli Spagnoli abbiano smantellato i templi incaici per trarne il materiale di chiese cristiane, e a Lima abbiano costruito tante chiese e pochissime scuole o ospedali, non è propriamente tenero. Nella sua ingenuità da Sacro Monte di Varallo, con burattini in grandezza naturale squartati su tavole di torsione, o appesi a funi, o ingozzati di liquidi immondi, il museo della Santa Inquisizione, nei sotterranei stessi dove quella istituzione celebrava i suoi processi, non manca d'una sua risentita indignazione. I graffiti d'alcuni prigionieri, pietosamente salvati sotto vetro, parlano un linguaggio familiare a chi conosce altri messaggi convulsi vergati col sangue sui muri di tetri alberghi nazifascisti. E quanto all'Inquisizione, pure l'Italia ne sa qualcosa. Visitando il museo di Lima, coi suoi burattini un po' ridicoli, vengono in mente le urla disumane di Tommaso Campanella, conservate nei verbali delle sue torture a Napoli: « Hoimé che moro, hoimé li coglioni, hoimé che mi avete ammazzato, oh Dio! ». * ★ Oggi questo Paese è governato da una dittatura militare di sinistra che ha spezzato il latifondo e si adopera per nazionalizzare la grande industria. I muri di Lima sono percorsi da scritte chilometriche, vergate evidentemente sotto l'occhio benevolo delle autorità di polizia; inneggiano alla rivoluzione e alla necessità che non si fermi. Il linguaggio dei governanti impiega la fastidiosa retorica di tutte le dittature. Ma pare che facciano sul serio: i ricchi e la gente bene di Lima non li possono soffrire. Il compito che si sono assunto è una fatica d'Ercole. Si fa presto, nei circoli intellettuali di Lima, a discorrere di marxismo, di terza via, di Cile, Cuba e Jugoslavia. Bisogna vedere l'interno del Paese, l'altopiano andino serrato per lungo tra le due Cordillere, la Bianca e la Negra. Appena si lascia la confortevole panamericana, che snoda il suo nastro d'asfalto lungo il Pacifico, e a Plativilca ci s'immette sulla polverosa strada che con infiniti tornanti s'arrampica fino ai 4000 metri della laguna di Conococha, una specie di malinconico Moncenisio che dall'altra parte dà origine alla lunga valle del rio Santa, è come se si aprisse una botola nel tempo e si piombasse indietro di millenni. Parlando delle abitazioni dei contadini, uno dei migliori libri sugli Incas, quello del Métraux, scrive: «Nelle vallate delle Ande centrali... erano fatte di terra battuta, di mucchi d'erba o di pietre a secco, e ricoperte di stoppie ». Di sbagliato c'è solamente il tempo del verbo: doveva scrivere « sono ». Esseri coperti di cenci vivono oggi, 1973, in piccoli cubi e parallelepipedi di terra secca, coltivando a mais e altri cereali appezzamenti di terreno ad altezze vertiginose, che con le loro chiazze regolari danno a queste aride preAnde un aspetto geometrico da paesaggio di Cézanne o di Casorati. E' il « triste, umiliato mondo di iloti e di miserabili » di cui parla Mariàtegui, il pensatore politico peruviano che studiò in Italia, e a Torino fu a contatto con Gobetti e con Gramsci. Bisogna andarselo a veder.- in tutta la sua profondità sul mercato di Huaras, una di quelle cittadine dell'altopiano che furono spazzate via dal terremoto del 1970, e che ora si vengono ricostruendo con commovente caparbietà, all'insegna del provvisorio e del pianterreno obbligato. Il mercato è un grande spiazzo incolto al margine della cittadina. Al largo occhieggiano candidi in semicerchio i più eccelsi Nevados della Cordillera Bianca: l'affascinante Huandoy, l'elegante Chopicalqui. Direttamente incombe il maestoso Huascaràn (6768 m), che invano cercammo di scalare con una comitiva di « Alpinismus International ». * ★ Su questo spiazzo convengono ogni giorno i contadini delle montagne circostanti, posano per terra la loro mercanzia — frutta, tuberi, animali — e aspettano. Non gridano, non vantano il loro articolo. Una vecchia montanara, dalla faccia rugosa di pietra, ha davanti a sé tre foglietti di giornale con una ventina di bacche ciascuno. Supponiamo che nel corso della giornata riesca a vendere tutti i tre mucchietti. Prenderà, mettiamo, 5 soles ciascuno: un totale di 250 lire aHo strozzinesco cambio ufficiale; meno della metà a borsa nera. Bambini cenciosi e ammalati si aggirano nel mercato a piedi nudi, sfiorando frutta e verdura. Tutte le merci alimentari sono posate per terra, nella polvere (salvo il pesce che, propagandato dal governo, gode d'un padiglione in muratura). I vestiti, invece — bluejeans e magliette americane con le figurine dei comics — sono su banchetti di professionisti del mercato. Lo spettacolo di miseria del mercato di Huaras avrebbe fatto cadere le braccia anche a Giuseppe Mazzini, pur con la sua immensa fede nell'avvenire. Quale ricetta politica prescrivere a questo popolo lacerato da squilibri immensi, che forse non ha ancora avuto nemmeno il suo feudalesimo? Le belle parole di Mariàtegui rendono un suono un po' vuoto. « Il proletariato non entra nella storia se non come classe sociale » e questa capacità la raggiunge « situandosi solidamente sul terreno della economia, della produzione ». SI, vaglielo a dire a questi poveretti vestiti di stracci, bersagliati dai terremoti e dalle alluvioni, che sbirciano di soppiatto i due coni nevosi del Huascaràn, caso mai non gli saltasse in mente di precipitare di nuovo a valle, come fece tre anni fa, seppellendo in un colpo solo due cittadine grandi come Pinerolo. Non si sa nemmeno come si potrebbe cominciare un discorso politico con questa gente. Ci vorrebbero degli apostoli: se ce ne sono, si facciano avanti. Màssimo Mila